I giuristi sanno bene quanto sia labile il confine che separa l’aggravante di «dolo eventuale» da quella di «colpa cosciente». E i pubblici ministeri sanno altrettanto bene che in giudizio è più difficile ottenere il riconoscimento della prima rispetto alla seconda. A quella linea così sottile corrisponde una differenza sostanziale (da una parte l’omicidio volontario, dall’altro appunto il colposo) che si riflette inevitabilmente nell’entità della condanna. I familiari delle sette vittime del rogo della Thyssenkrupp di Torino non sono tenuti a conoscere leggi e cavilli e la loro reazione dura, il loro rinnovato dolore di fronte alla riduzione delle pene per i responsabili di quelle morti, sono del tutto comprensibili: i loro cari sono caduti mentre sudavano per portare a casa un salario, in condizioni che non garantivano l’incolumità. Tuttavia sarebbe un errore, da parte di chi ha il dovere d’informare, lasciare che la rimodulazione delle pene stabilita ieri dalla Corte d’appello del capoluogo piemontese possa in qualche modo essere percepita come un caso di malagiustizia o, peggio, come un’assoluzione. La condanna degli imputati, infatti, resta ed è anche esemplare, come ha riconosciuto – pur annunciando ricorso in Cassazione – il procuratore aggiunto Guariniello: «Si tratta comunque di una sentenza storica, non sono mai state date pene così alte per gli infortuni sul lavoro». E rimane integro l’impianto accusatorio: quei lavoratori sono morti a causa della negligenza dell’azienda. Questo hanno confermato ieri i giudici d’appello. E questo è stato sanzionato.