Nel giro di pochissimi giorni, anzi di ore, papa Francesco e la Chiesa cattolica si sono mobilitati per i cristiani dell’Iraq e le altre minoranze perseguitate come nessun’altra istituzione, laica o religiosa, ha saputo fare. Prima il Pontefice ha mandato in Iraq il proprio "inviato", il cardinale Filoni, che fu a lungo nunzio apostolico a Baghdad. Poi ha battuto il colpo più forte, con una lettera a Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite, accorata nei toni ma precisa nella sostanza: l’Onu deve decidersi, nel caso dell’Iraq, a fare ciò per cui è stata creata, a rispettare i compiti istituzionali: «In conformità - scrive il Papa - con il Preambolo e gli articoli pertinenti» della sua Carta. Ovvero, «unire le forze per mantenere la pace e la sicurezza internazionale» (lo stabilisce appunto il Preambolo) fino a «intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale», come prevede l’articolo 42 della Carta nel caso in cui le altre misure non diano i risultati sperati. Infine, anche il Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa, con il presidente Peter Erdo e il vicepresidente Angelo Bagnasco primi firmatari, ha rivolto un appello alle Nazioni Unite, chiedendo che «il Consiglio di Sicurezza prenda decisioni che pongano fine a questi atroci atti» perpetrati contro le minoranze religiose irachene.Definire tutto questo un’accelerazione sarebbe un grossolano errore. Soprattutto per quanto riguarda il Medio Oriente, infatti, è impossibile non notare che solo la Santa Sede sembra capace di elaborare un pensiero profondamente politico e lungimirante. Proviamo ad andare a ritroso. Pensiamo alla preghiera comune cui Francesco chiamò Shimon Peres, Abu Mazen e il Patriarca ecumenico Bartolomeo, e rivediamo il film atroce di quanto è poi successo tra Israele e i palestinesi: il rapimento e l’assassinio a orologeria dei tre studenti israeliani e la guerra a Gaza, la strage dei bambini innocenti presi tra i due fronti e i governi che ancora oggi non riescono a trovare una credibile via d’uscita. Risaliamo alla crisi della Siria e ripensiamo a quando, giusto un anno fa, mentre si parlava di un intervento militare Usa, papa Francesco intervenne per scongiurare l’ennesimo sbarco di armi e soldati in Medio Oriente: la devastazione che i miliziani fondamentalisti dell’Isis hanno portato prima in Siria e poi in Iraq, ovunque perseguitando i cristiani anche grazie ad armi improvvidamente fornite da altri Paesi, anche occidentali, dimostra quanto fosse fondata la sua preoccupazione.Insomma, c’è un pensiero e c’è una strategia. C’è un’idea chiara, che può essere riassunta nelle parole spese da papa Francesco dopo l’Angelus del 27 luglio: «Al centro di ogni decisione non si pongano gli interessi particolari, ma il bene comune e il rispetto di ogni persona». Solo con questo criterio si misurano le diverse ipotesi di intervento, che nulla devono imporre per partito preso e nulla escludono: dall’impegno diplomatico all’intervento in base ai princìpi dell’ingerenza umanitaria. Tutto il contrario, insomma, di quel ritratto assurdo del Papa che alcuni provano oggi a tracciare, come di un Pontefice alla fin fine troppo buono e irenico per trattare i mali di questo mondo. Caricatura incredibile che serve soprattutto ad assolvere loro dall’aver suonato la grancassa, nel recente passato, a qualunque spedizione purché andasse contro il mondo arabo, anche a costo di certificare la disgrazia dei cristiani e delle altre minoranze che di quel mondo sono parte e in quel mondo da secoli esistono e resistono. L’accelerazione, se c’è, è semmai dei governi, che come sempre procedono in ordine sparso: chi decide di aprire un corridoio preferenziale per i profughi iracheni come la Francia, chi lancia incursioni aeree e progetta l’evacuazione dei gruppi più minacciati come gli Usa, tutti più o meno pensando di riarmare l’esercito iracheno e quello curdo per rinforzare gli ultimi bastioni contro il dilagare dei seguaci di al-Qaeda. A tutti la Chiesa ha dato un progetto. E anche, per chi avesse il coraggio di seguirla, un’ispirazione: quella della preghiera. Lo strumento cui papa Francesco si è affidato in tutte queste crisi: dal 7 settembre 2013, con la giornata di digiuno e preghiera «per la pace in Siria, nel Medio oriente e nel mondo intero», all’8 giugno scorso durante l’incontro in Vaticano con Peres e Abu Mazen, fino all’ultimo Angelus con il grido «Non si fa la guerra in nome di Dio!». Un appello infatti raccolto dalla Chiesa italiana che, nel giorno dell’Assunzione, ha promosso una giornata di preghiera per tutti i cristiani vittime delle persecuzioni.