Caro Avvenire, da tempo non si fa altro che parlare di leggi che diano la possibilità di porre fine alla vita, di persone che accompagnano i malati negli Stati dov’è praticata l’eutanasia assistita e si giustificano e si gloriano delle opere da loro compiute, anzi affermano che accompagneranno altre persone a morire. Fra queste persone che si fanno pubblicità in nome della morte, vorrei ringraziare la piccola Noemi Sciarretta, la piccola bambina di 5 anni che fin dalla tenera età lotta per la vita. Grazie alla piccola Noemi, ai suoi genitori e al fratellino che ogni giorno spendono la loro vita per dare la vita. Ma perché in questa nostra nazione nessuno si indigna e non fa nulla se i genitori per assistere la bambina sono senza lavoro e non chiedono carità, ma solamente ascolto e aiuto?
Noemi Sciarretta, non ancora 5 anni, da Guardiagrele (Chieti) è una bambina affetta da Atrofia muscolare spinale, malattia neurodegenerativa che le impedisce qualsiasi movimento e le rende arduo perfino respirare. È alimentata con un sondino gastrico e ventilata dal respiratore artificiale; però, dice chi la conosce, è forse anche più sveglia dei bambini della sua età. A Noemi l’assistenza è garantita dal Servizio sanitario nazionale solo per 4 ore al giorno, ma lei ha bisogno di cure 24 ore su 24. Le stanno accanto la madre e il padre, Andrea, che ultimamente ha perso il lavoro di macellaio in un supermercato. Il contratto, dopo sei anni, non gli è stato rinnovato. A ogni nuovo colloquio, scrive sul suo sito web, non appena sentono parlare della malattia della figlia e dei permessi per l’assistenza previsti dalla legge 104, i possibili datori di lavoro si irrigidiscono. Una boccata d’ossigeno sarebbe l’assegno mensile previsto nella legge sul Caregiver (i familiari che assistono i malati, ndr), per i casi più critici di disabilità pediatrica sarebbero mille euro mensili ad uno dei genitori. Ma ad oggi questi soldi non ci sono. Per sostenere la bambina il padre e la madre, che hanno anche un figlio di otto anni, hanno creato una Onlus, www.progettonoemi.com. «Ma perché in questa nostra nazione nessuno si indigna e non si fa nulla se i genitori per assistere una figlia sono senza lavoro, e chiedono ascolto e aiuto?» si chiede il lettore. Temo che sia perché è più facile sostenere la morte che la vita. Se un uomo è molto malato, al punto di desiderare di morire, la cosa più semplice da fare è accontentarlo. Gli si dà ciò che chiede, almeno apparentemente, e lo si lascia andare come vuole. Ma non è un sollievo anche per la comunità, sapere che ha smesso di soffrire? Certe sofferenze drammatiche, perpetue, turbano chi ne sente parlare. Con un viaggio in Svizzera e diecimila euro si pone riparo allo scandalo che la sofferenza costituisce. Inoltre, indirettamente si stabilisce che questa possibilità esiste, che potrebbe valere anche per noi il giorno che, Dio non voglia, ci trovassimo in una simile situazione. È un sollievo, la Svizzera, a guardare i fatti superficialmente: una via di uscita plausibile e, come si suol dire, “dignitosa”. E perché su chi va in Svizzera i giornali fanno le prime pagine, e su questa Noemi invece no? Perché lei vuole vivere, e i suoi genitori, che la amano, vogliono che viva. Ma la vita in queste condizioni è durissima, accompagnata come è dalle macchine, vulnerabile da infezioni da niente. Se solo ci immaginiamo di potere avere un figlio in queste condizioni, tremiamo. Per questo vicende simili trovano poco spazio sui giornali: perché a giornalisti e lettori fanno troppa paura. Né si domanda una fine gentile, ma invece solo di poter continuare a far vivere e a vivere. È quasi incomprensibile per noi, che si sappia sostenere un tale dolore, e per di più senza negare quella gioia che è, ogni giorno, un sorriso di una amatissima figlia. Cose troppo difficili da dire in un titolo, impossibili da spiegare in poche righe. Quanto più popolare l’idea di farla finita – Exit, come recita il nome di quella associazione svizzera che garantisce, a chi lo vuole, l’annientamento alla radice del dolore.