Tre anni e mezzo dopo la Rivoluzione dei Gelsomini, che dalla Tunisia travolse le sorti dei vicini nordafricani passando alla storia come Primavera araba, è tempo di bilanci per la classe politica che ha tenuto il timone nella burrasca. All’esame di maturità si presenteranno, domenica 26 ottobre, Ennahda (La rinascita), partito islamista moderato, al governo in coalizione con altre forze liberali, e Nidaa Tounes (La chiamata della Tunisia), forza laica che raggruppa le diverse anime dell’opposizione, attingendo anche alla vecchia nomenclatura. L’appello alle urne da parte di entrambi i movimenti è forte e determinato: la campagna elettorale ha segnato tutto il territorio, dalla devota Kairouan alla turistica Sfax, dai centri agricoli disagiati al cuore moderno della capitale. E l’elettorato ha seguito i dibattiti con trasporto: Internet è sovraffollata, in queste ultime ore di tournée prima della pausa di domani, da foto e video di manifestazioni gremite. I volti di Rached Ghannouchi, numero uno di Ennahda, e di Beji Caid Essebsi, fondatore di Nidaa Tounes, non abbandonano il cittadino neanche in moschea. Le elezioni legislative di quest’anno saranno decisive, la popolazione lo sa: secondo gli osservatori del laboratorio politico tunisino, l’astensionismo sarà sconfitto. E questa è già una buona notizia per chi ritiene che la democrazia, anche in un frangente regionale marcato dal rumore delle armi, possa farsi largo. In Tunisia, molto è cambiato in questi quattro anni. O quasi. Il 23 ottobre del 2011, quando i tunisini votarono i deputati dell’Assemblea costituente, si trattava di voltare pagina dopo la lunga e avida dittatura del presidente Zine el-Abidine Ben Ali: 23 anni, durante i quali l’ex militare di carriera e il clan della moglie, Leila Trebelzi, 'spolparono' le casse dello Stato. I tunisini cancellarono quell’epoca dando fiducia all’opposizione islamista, esiliata all’estero. Ora, invece, la questione pare differente: non solo la dittatura è cosa passata – eppure qualche nostalgico ha affisso manifesti del Ben Ali dei tempi di gloria –, ma anche la rivoluzione è archiviata. Finita l’emergenza, bisogna scegliere quale matrice dare al Paese. Quale direzione prendere mentre tutto intorno vacilla: la Libia, di nuovo nel baratro della guerra civile; l’Egitto, tornato sui propri passi con una dittatura militare; il Vicino Oriente, eroso dal tarlo jihadista. Anche in Tunisia sta andando in scena la battaglia fra visione laica e visione confessionale dello Stato. Ma a tinte pastello: la lezione egiziana è stata imparata dai Fratelli musulmani tunisini, di cui Ennahda è espressione: meglio scendere a patti con le altre forze politiche che sfidare la società, vigile, con colpi di mano irreparabili. Così la Tunisia ha superato lo scoglio della nuova Carta costituzionale: uomini e donne conservano pari diritti, la nazione è ancora aperta al pluralismo religioso. Eppure, l’islam radicale guadagna punti, soprattutto fra i più giovani: non è solo una reazione a decenni di forzata o quanto meno incoraggiata occidentalizzazione. Adolescenti e giovani adulti sono i più delusi dalla Rivoluzione dei gelsomini: loro che hanno cacciato un despota per farsi protagonisti della scena politica, economica e sociale e, per tutta risposta, ne sono stati emarginati. Barbe lunghe per gli uomini, niqab (velo integrale) o hijab (velatura del capo) per le donne anche nella centrale avenue Bourghiba, a Tunisi: lo sguardo del turista fotografa una realtà inedita per un Paese tradizionalmente 'moderno'. La devozione ha radici nella débâcle economica di Ennahda. La crisi morde come e più di quattro anni fa: con un tasso di disoccupazione del 15,3% rilevato alla fine di giugno di quest’anno (13% nel gennaio 2011), la crescita del Pil inferiore al 2%, il deficit al 6%, il 60% della cosiddetta classe media con un reddito mensile intorno ai 300 euro, il Paese continua a sfornare lavoratori migranti e, purtroppo, aspiranti jihadisti. La voce dell’islam radicale è suadente, scrive il New York Times: sono almeno 2.400 i tunisini, in gran parte diplomati e disoccupati, partiti per l’Iraq e la Siria con l’obiettivo di entrare a far parte dello Stato islamico (Is). Migliaia sono stati fermati dalle autorità. In realtà, già prima che si parlasse dei tagliagole al servizio di Abu Bakr al-Baghdadi, le forze lealiste di Damasco segnalavano la presenza di miliziani tunisini nelle brigate islamiste. A riprova di questo fenomeno i numerosi passaporti nordafricani rinvenuti sui cadaveri dei jihadisti morti intorno ad Aleppo nell’estate del 2011. Ora il Nyt mette in evidenza il contrasto tra il dilagare dell’animo militante e i passi avanti compiuti in ambito politico. Niente di più logico, in realtà. Anzi, se pianificato a tavolino, persino geniale nel suo machiavellismo. Assicurare stabilità e sicurezza al Paese, fragile con i suoi 11 milioni di abitanti, convogliando le 'teste calde' verso altri lidi. Per chi si arruola – e le tv panarabe ne intervistano a iosa – lo Stato islamico rappresenta il sogno di un sistema equo, giusto, in cui chi impartisce gli ordine è guidato dalla voce di Allah e non da ambizioni personali. E poi, sul campo di battaglia, ci si sente protagonisti, padroni della propria vita e, talvolta, anche di quella degli altri.
Pubblicamente, in patria, solo una minoranza dei tunisini esprime sostegno all’Is, ma tutti coloro che hanno meno di trent’anni conoscono qualcuno che è partito per la Siria o l’Iraq. Per molti, i Daaesh (acronimo arabo di Is) sono uno strumento divino per ridisegnare i confini del mondo islamico dopo la fine del colonialismo occidentale. L'altro fronte che assorbe lo scontento tunisino è quello libico, come provano le cronache: da ultimo, un ragazzo di 23 anni, Bilel Kaâbi, originario del governatorato di Kairouan, è morto in Libia saltando in aria mentre si trovava a bordo di un’autovettura imbottita d’esplosivo. Quanto ai miliziani rientrati, sarebbero circa 400: una bomba a orologeria, anche per i Paesi confinanti. Il governo algerino ha disposto la chiusura delle frontiere in occasione dello scrutinio ed eventualmente per le 24 ore successive. La polizia tunisina ha rafforzato i controlli ovunque: durante un’ispezione, uno scontro a fuoco fra agenti e 'terroristi' si è verificato alla periferia di Tunisi nella giornata di giovedì. Intanto, gli esponenti di spicco di Ennahda dicono di aver sovrastimato il potere della democrazia nella lotta all’estremismo violento. Uno dei leader del partito, Said Ferjani, ha fatto mea culpa per l’inefficace lotta al radicalismo condotta finora: «Senza sviluppo sociale, non penso che la democrazia possa sopravvivere». A Ennahda e Nidaa Tounes, la difesa della democrazia nascente potrebbe quindi chiedere un sacrificio: governare assieme. Ipotesi non remota visti i sondaggi. Poi, un altro compromesso: esprimere candidati condivisi alle elezioni presidenziali, il 23 novembre. Un ulteriore esame di maturità per la Tunisia post-rivoluzionaria.