Gentile direttore,
la ringrazio per l’attenzione che “Avvenire” pone al mondo della scuola. Per questo motivo rimango sempre perplesso quando mi imbatto in valutazioni e prese di posizione che sembrano tener conto solo degli aspetti economici e finanziari a essa legati. Mi riferisco, in particolare, al fondo del 14 settembre di Francesco Riccardi che parla – per la verità senza particolare riferimento al mondo scolastico – della riforma pensionistica esclusivamente sotto il profilo della spesa che comporterebbe, senza tener conto delle situazioni reali in cui si lavora. Nel caso della scuola, un insegnante che ha superato i sessant’anni (dei quali oltre la metà trascorsi in cattedra) è oggettivamente sempre meno in grado di “tenere” una classe (magari di ragazzini di 11 o 12 anni) che è lontana anni luce da quella che ha frequentato lui mezzo secolo prima: figli di immigrati che spesso arrivano in classe ad anno scolastico iniziato da un pezzo e con un’idea molto vaga della lingua italiana, alunni con disabilità di vario genere (assistiamo a una vera e propria cascata di certificazioni di dislessia, disgrafia eccetera), ragazzini provenienti da famiglie sfasciate... per non parlare della disciplina, ormai un optional. In questo momento, il divario massimo di età fra un alunno di prima elementare e una maestra a fine carriera è di mezzo secolo! In un contesto siffatto, educare diventa compito molto più arduo di un tempo, con i disastrosi risultati anche didattici che si vedono. Costringere gli insegnanti a rimanere al lavoro ben oltre i sessant’anni significa risparmiare nell’immediato, ma rinunciare ad investire nel futuro. Cordialmente,
Riccardo Prando Varese
Come lei stesso ricorda, gentile professor Prando, il mio commento riguardava la manovra economica prossima ventura, non la scuola e le condizioni di insegnamento, sulle quali non entro. Perciò, accettando l’invito del direttore a dialogare, su tale questione mi limito a dire – anche per l’esperienza vissuta con i miei due figli che hanno avuto la fortuna di trovare un bravissimo maestro... di “lunga esperienza” – che un docente negli “anta” non è necessariamente in difficoltà a tenere classi particolarmente vivaci. Non vorrei neppure riaprire l’annosa questione dei cosiddetti “lavori usuranti” sui quali si sono esercitate diverse maggioranze di governo e, da ultimo, il Parlamento nella scorsa legislatura approvando la lista delle professioni che hanno diritto ad accedere a un pensionamento anticipato, tra le quali figurano le maestre/i di asilo nido e di scuola dell’infanzia. Semplicemente non credo che la vita professionale di tutti noi debba finire a 60 anni o poco più. Anche per l’equilibrio dei conti previdenziali che va necessariamente preservato. Bastano un paio di cifre per comprenderlo. L’aspettativa di vita media è pari a 85 anni per le donne e 80,6 per gli uomini. Un’insegnante che concludesse il suo impegno lavorativo a 60 anni, «la metà dei quali passati in cattedra», come lei dice, ne passerebbe quasi altrettanti in pensione (e naturalmente gliene auguriamo di più!), con un costo assai superiore rispetto al montante dei contributi versati e rivalutati. È peraltro vero – lo abbiamo scritto negli anni scorsi – che il meccanismo di aggancio tra crescita dell’aspettativa di vita e incremento dell’età minima per il pensionamento è troppo rigido e accelerato, tanto da far sembrare la quiescenza come una carota fissata davanti al muso dell’asino: sempre irraggiungibile. Ma se i 67 anni (e oltre) per la pensione appaiono troppi, 60 anni sono decisamente troppo pochi. Quello che va ricercato è dunque l’equilibrio di un sistema che sia al tempo stesso flessibile e sostenibile sul piano finanziario. La quota 100 ipotizzata dal governo Conte rappresenta un livello piuttosto costoso, soprattutto se il limite dell’età anagrafica verrà fissata ad appena 62 anni con 38 anni di contribuzione. Le stime parlano di una spesa aggiuntiva tra gli 8 e gli 11 miliardi di euro già al primo anno, non proprio bruscolini... Meglio sarebbe partire da due soglie (indipendenti) di almeno 64 d’età o 40-41 anni di contribuzione. E già così l’impegno sarebbe notevole, stimabile tra i 5 e gli 8 miliardi di euro. Spesa aggiuntiva da finanziare attraverso il fisco o nuovo indebitamento. A tutto danno delle generazioni più giovani che pure si vorrebbero favorire con un ricambio (piuttosto incerto) nei posti di lavoro, nella scuola e altrove.