La prima parola è pentimento,
una parola estranea alla nostra cultura, eppure fondamentale per poter
ricominciare davvero dopo ogni crisi personale e collettiva. Dopo aver
fatto errori, soprattutto se gravi e collettivi, per poter ripartire spediti
nel viaggio c'è bisogno, prima, di pentirsi, perché se manca la coscienza
di aver sbagliato, non si riesce a ritrovare la strada per riprendere il
cammino. La prima espressione di ogni pentimento è provare dolore, rincrescimento
e rammarico per aver fatto cose non buone, che hanno procurato del male
a se stessi e soprattutto agli altri.
Di cose non buone, e gravi, ne abbiamo
viste tante in questi anni di crisi, e ne stiamo vedendo ancora troppe.
Ma non si vedono né intravedono pentimenti nei leader della finanza speculativa,
nella cultura del top management di grandi aziende e banche, né in grossa
parte della nostra classe politica. Senza pentimenti civili, accompagnati
come in tutti i pentimenti veri da qualche gesto, non avremo la forza di
ripartire. Per questi errori e peccati civili ed economici, i (necessarissimi)
processi nelle aule dei tribunali non possono esaurire i riti di pentimento,
scuse e magari di riconciliazione. Quando un manager di una grande banca
o azienda commette dei reati, c'è bisogno di qualcosa di più della sentenza
dei tribunali (quando arriva): ci sarebbe bisogno che queste istituzioni
che hanno tradito fiducia e speranze di azionisti e dell'intero Paese sapessero
pentirsi, chiedere scusa e perdono alla gente. La riparazione e la restituzione
del codice civile e penale sono troppo povere per questi reati che feriscono
i codici simbolici ed etici delle comunità.
La seconda parola è umiltà.
Una virtù fondamentale per la buona vita, una parola totalmente fuori corso
in una cultura che premia gli "io" ipertrofici, e non ha più occhi per
apprezzare la virtù dell'umiltà. Umiltà viene da terra, da quell'humus
che è radice ad un tempo di umiltà (humilitas) e di uomo (homo), una ricchezza
semantica che si ritrova anche nella lingua ebraica, dove uomo e terra
sono chiamati adam e adamah. L'umiltà è una delle parole fondanti l'umano,
perché ci dice che le cose grandi nella vita sono tali perché piccole,
perché sono un di meno, un diminuire, perché sono polvere e terra. Questo
antico legame umiltà-uomo-terra ci ricorda che l'umiltà è virtù quando
nasce dall'aver toccato polvere, terra, cenere: si diventa veramente umili,
e veramente uomini, quando si cade, si sente la terra e la polvere, e poi
ci si rialza. È questa l'umiltà di Giobbe, ma anche quella di chi lavora
e conosce la terra, quella di chi, di fronte a una montagna o a un sasso,
fa l'esperienza della propria infinita piccolezza, e da quel contatto con
la terra riscopre anche la propria dignità infinita. Non ci si umilia da
soli (questo è narcisismo), ma sono gli altri, la vita, la terra e la povere
a umiliarci, e poi possono farci ricominciare migliori il cammino. I fallimenti,
individuali, economici, politici, di questi anni possono diventare un'occasione
per migliorare, ma occorre, prima, voler fare l'esperienza dell'umiltà,
che è del tutto assente da tutti i programmi, le promesse e soprattutto
dai toni di questi tristi e tesi giorni pre-elettorali.
La terza parola
è digiuno. Il nostro secolo ha l'ossessione delle diete, ma non conosce
più il digiuno, perché il digiuno non è faccenda di calorie o di dimagrimenti,
ma ha a che fare con un altro cardine della buona vita: la temperanza.
Il digiuno è educazione dei desideri, delle passioni, del cuore, dello
spirito, dell'intelligenza. Il digiuno e la temperanza per essere apprezzati
e poi coltivati hanno bisogno di persone capaci di vedere dei valori in
cose che si chiamano limite, moderazione, sobrietà. In realtà se guardiamo
bene la nostra gente, oltre gli spettacoli televisivi, ci accorgiamo che
sono sempre più le persone che vivono vite temperate, che attribuiscono
valore al limite (nell'uso delle risorse, del tempo, del lavoro, dei profitti,
nel consumo ¿), che moderano i propri bisogni, che li arricchiscono diminuendoli.
Ne incontro tanti, e ogni giorno di più, ma non se ne parla nella sfera
pubblica, perché non fanno audience e si ritiene che non portino voti.
La civiltà che ci ha preceduto era scandita dai digiuni, perché l'asprezza
della vita era sostenibile solo educando passioni, intelligenza e volontà:
la povertà può diventare, ed è diventata, vita buona e degna solo se accompagnata
dai digiuni, che moltiplicano il valore del poco cibo e della festa dei
poveri. È anche la mancanza della "cultura della Quaresima" che sta decretando
da noi la "morte del carnevale" (e il boom di Halloween, che è il suo opposto),
che è stato davvero sentito e vissuto finché lo precedevano e attendevano
i digiuni di cibo e di festa. Il digiuno, infine, alimenta e rafforza,
non riduce, la voglia di vivere, la generatività della vita: non a caso
la grande filosofia greca aveva indicato in Penia (indigenza, mancanza)
il genitore di Eros. Ogni creatività, dall'arte alla famiglia all'impresa,
richiede il desiderio di ciò che non si ha o non si è ancora. La radice
di ogni vera crisi è lo spegnersi del desiderio del non ancora.