Il 'rischio Grecia' non è più solo quello di finire nel baratro, schiacciati da una spesa pubblica fuori controllo e da una speculazione finanziaria particolarmente accanita. Da ieri è anche quello di vedere accendersi i fuochi di una rivolta permanente. Limitata, minoritaria, certamente. Ma non per questo meno violenta e rovinosa per il Paese.Le sequenze degli scontri verificatisi a Roma come a Milano, a Torino come a Brescia, con i tentativi di manifestanti a volto coperto di sfondare i cordoni delle Forze dell’ordine non sono sovrapponibili alle immagini di piazza Syntagma ad Atene, resa nebbiosa dai fumogeni e illuminata solo dalle fiammate delle molotov. Non ancora, perlomeno.Tuttavia il rischio c’è, e si avvertiva in modo netto nella tensione che ha attanagliato la capitale con i cortei deviati, i lanci di sassi e altri oggetti, le decine di agenti e carabinieri feriti. E non di meno preoccupano i nuovi assalti alle sedi di Cisl e Uil, il riemergere delle mai sopite divisioni nel mondo sindacale. Con la Cgil che ieri ha finito – suo malgrado – per offrire una cornice 'nobile' e istituzionale come lo sciopero generale alla prepotenza delle frange più becere del movimento studentesco e del variegato mondo che orbita attorno a Cobas e centri sociali.Gli scontri in piazza, le vetrine sfondate, le lattine di vernice rovesciate nei locali della confederazione guidata da Raffaele Bonanni a Roma e a Bologna, le accuse di essere 'filo-padronali' per ora sono solo l’ennesimo triste déjà vu (e bene ha fatto Susanna Camusso a condannare subito questi atti con nettezza). Anche solo queste prime e ritornanti forme di prevaricazione, però, segnalano quantomeno tre inadeguatezze. La prima è quella di una parte del sindacato e della sinistra evidentemente incapaci di affrancarsi dalla mistica dello sciopero generale, vissuto come panacea di tutti i mali e catarsi collettiva. Spesso a prescindere dal risultato pratico che potrà ottenere o, appunto, dai rischi che può innescare.La mobilitazione promossa dal sindacato a livello europeo non comportava necessariamente la proclamazione di uno sciopero generale, che infatti si è svolto in soli 3 Paesi su 27, deciso da parte di poche sigle sindacali. Un grande sindacalista come Bruno Trentin si sarebbe posto il problema del 'giorno dopo', perché proclamare uno sciopero è facile, assicura consensi immediati all’interno e anche all’esterno dell’organizzazione, a volte serve per far 'sfogare' la tensione in maniera pacifica.Ma poi conta cosa si fa il giorno successivo, cosa si può ottenere, cosa si 'costruisce' con il sacrificio delle ore di lavoro. E oggi come si può tutelare con maggiore efficacia la condizione dei lavoratori? Facendo fermare in tutta Italia quel poco lavoro che c’è, per sfilare nelle piazze, o restando incollati al tavolo della trattativa sulla produttività, cercando di concorrere, tutti insieme, a uno scatto in avanti del Paese?La seconda inadeguatezza è quella di chi si promuove come la 'novità' della politica, salvo ripercorrere vecchi schemi che pensavamo di esserci lasciati alle spalle da decenni. Per intenderci, il Beppe Grillo che invita le forze dell’ordine – «i soldati blu», come li chiama – a solidarizzare anziché manganellare i giovani manifestanti. Una riscrittura del pensiero di Pasolini, sulla comune condizione di poliziotti e giovani, che però ha il difetto di disconoscere la diversa responsabilità di chi attacca e chi difende, di chi scende in piazza con il viso mascherato e un manico di piccone e chi, per dovere, tutela la convivenza civile e i luoghi della democrazia, non è la scorta privata di una casta.La terza inadeguatezza è purtroppo quella di chi educa e indirizza tanti nostri ragazzi, troppo facilmente preda di slogan preconfezionati – «la scuola privatizzata, svenduta, allo sfascio» – e perfino strumentalmente utilizzati nelle battaglie sindacali sull’orario dei professori. C’è un’immagine di ieri che colpisce più di mille parole: l’irrompere di una madre nel corteo, mentre più intenso si faceva lo scontro, che cercava il figlio, probabilmente un liceale. Gridava la donna, piangendo: 'Giovanni, dove sei?'. È la domanda di tutti noi: Giovanni dove sei? Dove rischia di perdersi ancora la tua generazione? E non può essere solo una domanda sconsolata.