Sul
Foglio Adriano Sofri ha commentato l’editoriale di
Avvenire dell’11 agosto in cui tracciavo un bilancio della inchiesta sulla «nuova evangelizzazione» in Europa condotta su queste pagine. A proposito dei neocatecumenali di Chemnitz, ex Ddr, che davanti ai cimiteri fermano i visitatori e domandano: «Sapete che i vostri morti risorgeranno?», Sofri scrive che diffida «di quel proselitismo non richiesto che si compie nelle corsie d’ospedale o alle porte dei cimiteri, tra i morenti e tra i superstiti. Un confine molto stretto lo separa dallo sciacallaggio». «Sciacallaggio»? Vorrei che Sofri leggesse l’intera pagina su Chemnitz, pubblicata in luglio. Quella città mi ha colpito profondamente: raramente ho visto in Occidente un luogo così intriso di tristezza. Palazzi diroccati, vecchi soli, strade spopolate dopo che i giovani, appena caduto il Muro, se ne sono andati in massa. C’è qualcosa di mortuario nella ex Karl-Marx-Stadt, così l’avevano chiamata dopo la guerra, e trovo che i neocatecumenali che si sono trasferiti lì con i loro figli, in missione, hanno avuto un grande coraggio. In realtà, la presenza davanti ai cimiteri è per loro un fatto molto marginale: come avevo riferito, l’obiettivo di questa gente è semplicemente "essere lì", lavorando, studiando, nella umile quotidianità, con le proprie famiglie. Come un segno, in una città che sembra l’icona di tutte le ideologie incenerite. I vecchi, lì, sono nati sotto il nazismo, hanno visto i padri fabbricare i motori dei Panzer, e poi le SS radere al suolo la sinagoga e deportare gli ebrei; hanno visto la città annientata, insieme a Dresda, dalle bombe incendiarie degli Alleati; hanno visto arrivare e insediarsi i sovietici, che di Chemnitz hanno voluto fare una città modello, tutta uguale nei suoi tristi palazzi allineati. Dopo l’89 hanno sperato nel benessere, e ancora una volta sono stati delusi. Nella faccia dei vecchi a Chemnitz l’amarezza è come incisa, insieme a una profonda solitudine. «Sciacallaggio», quello dei cristiani che annunciano davanti ai cimiteri la risurrezione? No, perché lo fanno con rispetto del rifiuto altrui, e con assoluta gratuità. Non sono, i neocatecumenali, sette che accumulino proseliti da irretire e plagiare: sono cristiani che semplicemente non possono non annunciare la loro speranza. Non sta bene farlo nei cimiteri, o negli ospedali? E perché? Perché questi sono i luoghi in cui anche nel più lontano da Dio si affaccia una domanda? Che cosa dovrebbe essere ammesso allora nei luoghi della sofferenza: una perfetta efficienza, un sostegno psicologico, magari un discreto sportello per l’ausilio a morire «con dignità»? Certo, queste opportunità sarebbero "politicamente corrette". La chance di ricevere gratuitamente, e magari liberamente rifiutare, una parola cristiana, invece, quella no; quella è un sopruso. Quasi quella speranza fosse una droga, un oppio narcotizzante offerto approfittando della altrui debolezza. Solo in questo vecchio sguardo, credo, l’annuncio cristiano in un ospedale o in un luogo di dolore può essere inteso come «sciacallaggio». Nello stesso fondo, parlando della nuova evangelizzazione dei Parcours Alpha a Parigi, avevo scritto della voglia di alcuni di tornare a dire il nome di Cristo, in una cultura secolarizzata e post-sessantottina che di questo nome aveva fatto l’ultimo tabù. Sofri contesta: io c’ero, dice, e quel nome nel ’68 fu tutt’altro che un tabù. Nel ’68, quando io ero bambina, forse no; ma nei licei borghesi degli anni 70 a Milano il post-sessantotto era già diventato un’onda di conformismo di sapore radicale. L’affermazione, in realtà, di un individualismo assoluto; un dirsi padroni di sé che non poteva ammettere la pretesa di alcun Dio sulla propria vita. Tantomeno di un cristianesimo che a molti di noi appariva solo come un invecchiato moralismo. I francesi di Alpha mi hanno detto proprio questo: educati nel laicismo radicale, convinti che la fede cristiana fosse solo una obsoleta fiaba, hanno riscoperto l’orgoglio e la dolcezza di pronunciare il nome di Cristo. E quanto poi all’ultima obiezione di Sofri, e cioè al senso da attribuire a quel «vorremmo crederci, ma non ne siamo capaci», «vorremmo crederci, ma non ne siamo capaci» dei cittadini di Chemnitz, che non riescono a sperare in una risurrezione, quella frase a me aveva ricordato le ultime parole del Barabba di Lagerkvist, libro che dice il dramma di molti, oggi in Occidente. Barabba spia di nascosto, meravigliato, affascinato, Cristo sul Golgota, ma poi dice amaro: «Ho desiderato di credere». Non ne è più capace; non ha la semplicità necessaria per arrendersi a Cristo. Ma se questa non sia davvero al fondo una preghiera, con quel desiderio doloroso e impotente, caro Sofri, è una domanda che faccio io a te.