Meno visitatori e meno sponsor degli anni ruggenti, meno potenti e meno codazzi, meno lobbisti e meno metri quadri occupati... eppure il ritorno del Meeting 'in presenza' è stato la notizia dell’estate ecclesiale, culturale e politica. Si era capito già lo scorso anno, quando, in un’estate pavida e incredula, divisa tra il popolo del mojito e quello della pandemia sociale, la Fondazione riminese aveva deciso – con tenacia molto ciellina – di organizzare ugualmente un Meeting lunare, tutto in remoto, fatto di webinar e conference call, pieno di ospiti ma vuoto di pubblico in carne e ossa.
Abbiamo sperato tutti che fosse almeno un laboratorio, un modello, un format, attanagliati com’eravamo dalla sensazione che non si potesse chieder di più a un mondo di sopravvissuti. Per i promotori invece, quella edizione era semplicemente la terapia intensiva, il tentativo consapevole di salvare una manifestazione che è rimasta l’ultima tribuna 'in presenza' di un dibattito pubblico ormai prevalentemente confinato nella dimensione digitale, dove le idee scorrono troppo rapide sulla superficie dei discorsi e, quanto ai partecipanti, si sa che ci sono ma non chi siano e cosa facciano realmente, né cosa pensino mentre sono collegati.
Potere e limite della società online, sempre connessa e sempre tracciabile, ma dalle esperienze oramai incomprensibili, destinate a rimanere presunte e comunque impossibilitate a fecondare una relazione, se non si crede ancora che un like sia qualcosa di più di un indicatore di marketing. In questo tempo di paura e di disperanza, il Meeting c’è perché ha scelto di esserci e ha scelto di esserci – smilzo, impoverito, ma pur sempre capace di attrarre decine di migliaia di persone – perché la sua identità, esattamente come la cosmogonia ciellina, è alternativa alla pandemia, alla paura e alla rinuncia della democrazia fondata sulla partecipazione. Ciò non significa una contrapposizione al moderno, anzi.
Il Meeting digitale, su cui si è ancora investito, resta lo strumento di diffusione e amplificazione del messaggio, ma non sostituisce l’esperienza dell’incontro dal vivo, come hanno confermato le giornate riminesi. Obiettivamente, quella che si è appena conclusa non è stata una edizione deluxe, ma ha tenuto alto il dibattito sull’Afghanistan e sul Reddito di cittadinanza, sulla letteratura e sul lavoro, come sempre. Mettendo a tacere ogni polemica, anche quelle interne sulla 'scelta religiosa', in un momento in cui serve unità, e dimostrando ancora una volta il profondo cambiamento del Movimento guidato da don Julián Carrón, oggi in dialogo fraterno con tutte le altre organizzazioni ecclesiali, a partire dall’Azione cattolica.
Un cambiamento che molti osservatori faticano a comprendere: questo Movimento che convoca e interroga tutti i partiti di maggioranza e di opposizione sulla 'sua' tribuna – e tutti ci vanno, per la prima volta presentando fisicamente l’alleanza di governo assembrata sul medesimo palco – non è semplicemente orfano del potere, ma sta lievemente svolgendo un ruolo prezioso. Che non è solo prepolitico.
Piadina e mascherina, folla e Green pass, tamponi per chi non era vaccinato: di nuovo, l’incontro genera l’avvenimento, che è quella passione per l’uomo capace di dire 'io' senza rinchiudersi in quelle due vocali, perché in relazione con tanti altri io. Da Kierkegaard a Giussani, dall’edizione 2021 al 2022 con una certezza sola. Che il 'vero' Meeting continuerà a esserci anche quando il Covid sarà morto. Perché la passione per l’uomo si nutre anche di sudore, sorrisi e lacrime vere. E perché, se quella contro il virus è una guerra, non la si vince rintanandosi sottoterra. Arrivederci a Rimini.