martedì 13 dicembre 2011
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Non è il primo anno che si avvia a conclu­sione nel pieno di una crisi economica. Però, l’attuale è la prima crisi che ha assunto di­mensioni europee, di cui la gente comune non comprende appieno l’alfabeto usato per de­scriverla. Sappiamo in termini generali che è in discussione la tenuta dell’Europa, della sua mo­neta, e si può tornare indietro di decenni. Ci rendiamo conto, magari confusamente, che an­che per responsabilità nostre, non abbiamo fat­to in tempo a sentire questa Europa come no­stra, che forse non si è realizzata in piena sin­tonia con gli ideali dei suoi fondatori, De Ga­speri, Schuman, Adenauer, mentre speravamo fosse il frutto di una svolta storica irreversibile.Ci accorgiamo che se viene meno l’Europa è a rischio serio, grave, la via di ciascuno di noi, il futuro dei ragazzi, dei giovani, il futuro più bre­ve degli anziani. Un po’ storditi, guardiamo in televisione chi go­verna gli Stati europei discutere, dividersi, per salvare l’euro, facciamo delle riflessioni, ab­bozziamo un esame di coscienza. Percepiamo il risorgere dell’isolazionismo inglese, del seco­lare duello tra Francia e Germania, del vecchio complesso italiano d’esser tagliati fuori dalle decisioni più importanti. Quindi, riconoscia­mo che l’Europa, libera dalle tragedie dei tota­litarismi del secolo XX, si è unita più sull’eco­nomia che sull’identità, sugli interessi conver­genti che non sul patrimonio culturale comu­ne.

Oggi che l’economia geme sotto il peso di una crisi internazionale, sentiamo che ci dob­biamo impegnare per non tornare a essere eu­ropei solo geograficamente. Le nostre responsabilità non sono lievi. Non tanto perché non ci sentiamo europei, forse in ragione di un nostra spinta universalistica cul­turale e religiosa lo siamo più di altri. Quanto perché abbiamo concepito l’Europa come una realtà più grande capace di supplire alle nostre debolezze, ed evitare le nostre cadute partico­laristiche, essendo ormai soci di un grande club. Oggi ci rendiamo conto di quanto miope fosse questo modo di pensare l’Europa, perché an­che i grandi club possono avere i piedi d’argil­la, e in quel momento tutte le componenti vi­vono la paura del crollo. Abbiamo sperimentato che le nostre debolez­ze, anziché essere coperte da chi è più solido di noi, possono mettere a rischio l’edificio complessivo del Vecchio Continente. Di qui la coscienza che la dimensione europea dovreb­be far cambiare il vecchio modo di fare politi­ca, rinnovare gli orientamenti dei partiti e dei sindacati, ispirare le decisioni capaci di supe­rare antiche e nuove contraddizioni dell’Italia. È un compito arduo, ma potrebbe essere faci­litato da una crisi che ci sta scuotendo da den­tro, investe per la prima volta la vita reale, quo­tidiana, di ogni categoria di persone, senza ec­cezioni.

Un altro profilo dev’essere preso in considera­zione. L’unità europea, sino ad oggi concepita essenzialmente dal punto di vista economico, manca di una propria interiorità se non si ispira e non si costruisce attorno al patrimonio stori­co, culturale e religioso, che i popoli europei han­no in comune assai più di altre formazioni geo­politiche. Quante volte Giovanni Paolo II e Be­nedetto XVI hanno richiamato la necessità che i valori etici e solidaristi della tradizione cristiana siano alla base dell’azione delle istituzioni euro­pee.

Oggi dobbiamo ammettere che all’Europa governata soltanto a livello economico e tecno­cratico manca un qualcosa che generi e plasmi il sentimento dell’appartenenza, la condivisio­ne delle regole, ne favorisca la crescita.

Qui, l’esame di coscienza riguarda un po’ tutti. La fatica con cui è stata elaborata la Costitu­zione della Ue lascia intravedere la debolezza del nostro sentire comune politico e culturale. C’è addirittura chi ha visto in questa carenza di identità una paradossale garanzia per la soli­dità delle istituzioni europee, ma la crisi eco­nomica ha dimostrato il contrario. Una forma­zione geopolitica che si fondi soltanto sull’e­quilibrio delle economie, sulla enunciazione di diritti individuali, ma non riconosca l’identità comune dei suoi popoli, il rapporto con il resto del mondo, al primo momento critico genera disaffezione, tendenze isolazioniste. Si può dire, allora, che c’è bisogno di più Euro­pa, a condizione però che essa sia riconosciu­ta per ciò che è dai suoi cittadini, sentita e amata per ciò che la unisce e la rende originale, vista come realtà che spinge a migliorare noi stessi, a cambiare dove c’è da cambiare, fare i sacrifi­ci necessari perché sono a vantaggio di tutti.

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