Non è il primo anno che si avvia a conclusione nel pieno di una crisi economica. Però, l’attuale è la prima crisi che ha assunto dimensioni europee, di cui la gente comune non comprende appieno l’alfabeto usato per descriverla. Sappiamo in termini generali che è in discussione la tenuta dell’Europa, della sua moneta, e si può tornare indietro di decenni. Ci rendiamo conto, magari confusamente, che anche per responsabilità nostre, non abbiamo fatto in tempo a sentire questa Europa come nostra, che forse non si è realizzata in piena sintonia con gli ideali dei suoi fondatori, De Gasperi, Schuman, Adenauer, mentre speravamo fosse il frutto di una svolta storica irreversibile.Ci accorgiamo che se viene meno l’Europa è a rischio serio, grave, la via di ciascuno di noi, il futuro dei ragazzi, dei giovani, il futuro più breve degli anziani. Un po’ storditi, guardiamo in televisione chi governa gli Stati europei discutere, dividersi, per salvare l’euro, facciamo delle riflessioni, abbozziamo un esame di coscienza. Percepiamo il risorgere dell’isolazionismo inglese, del secolare duello tra Francia e Germania, del vecchio complesso italiano d’esser tagliati fuori dalle decisioni più importanti. Quindi, riconosciamo che l’Europa, libera dalle tragedie dei totalitarismi del secolo XX, si è unita più sull’economia che sull’identità, sugli interessi convergenti che non sul patrimonio culturale comune.
Oggi che l’economia geme sotto il peso di una crisi internazionale, sentiamo che ci dobbiamo impegnare per non tornare a essere europei solo geograficamente. Le nostre responsabilità non sono lievi. Non tanto perché non ci sentiamo europei, forse in ragione di un nostra spinta universalistica culturale e religiosa lo siamo più di altri. Quanto perché abbiamo concepito l’Europa come una realtà più grande capace di supplire alle nostre debolezze, ed evitare le nostre cadute particolaristiche, essendo ormai soci di un grande club. Oggi ci rendiamo conto di quanto miope fosse questo modo di pensare l’Europa, perché anche i grandi club possono avere i piedi d’argilla, e in quel momento tutte le componenti vivono la paura del crollo. Abbiamo sperimentato che le nostre debolezze, anziché essere coperte da chi è più solido di noi, possono mettere a rischio l’edificio complessivo del Vecchio Continente. Di qui la coscienza che la dimensione europea dovrebbe far cambiare il vecchio modo di fare politica, rinnovare gli orientamenti dei partiti e dei sindacati, ispirare le decisioni capaci di superare antiche e nuove contraddizioni dell’Italia. È un compito arduo, ma potrebbe essere facilitato da una crisi che ci sta scuotendo da dentro, investe per la prima volta la vita reale, quotidiana, di ogni categoria di persone, senza eccezioni.
Un altro profilo dev’essere preso in considerazione. L’unità europea, sino ad oggi concepita essenzialmente dal punto di vista economico, manca di una propria interiorità se non si ispira e non si costruisce attorno al patrimonio storico, culturale e religioso, che i popoli europei hanno in comune assai più di altre formazioni geopolitiche. Quante volte Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno richiamato la necessità che i valori etici e solidaristi della tradizione cristiana siano alla base dell’azione delle istituzioni europee.
Oggi dobbiamo ammettere che all’Europa governata soltanto a livello economico e tecnocratico manca un qualcosa che generi e plasmi il sentimento dell’appartenenza, la condivisione delle regole, ne favorisca la crescita.
Qui, l’esame di coscienza riguarda un po’ tutti. La fatica con cui è stata elaborata la Costituzione della Ue lascia intravedere la debolezza del nostro sentire comune politico e culturale. C’è addirittura chi ha visto in questa carenza di identità una paradossale garanzia per la solidità delle istituzioni europee, ma la crisi economica ha dimostrato il contrario. Una formazione geopolitica che si fondi soltanto sull’equilibrio delle economie, sulla enunciazione di diritti individuali, ma non riconosca l’identità comune dei suoi popoli, il rapporto con il resto del mondo, al primo momento critico genera disaffezione, tendenze isolazioniste. Si può dire, allora, che c’è bisogno di più Europa, a condizione però che essa sia riconosciuta per ciò che è dai suoi cittadini, sentita e amata per ciò che la unisce e la rende originale, vista come realtà che spinge a migliorare noi stessi, a cambiare dove c’è da cambiare, fare i sacrifici necessari perché sono a vantaggio di tutti.