«Roma è dall’altro lato del mondo, eppure qui l’abbiamo sempre sentita a un passo». Con il dito indica la collina su cui si erge la statua del Cristo Rei de Dili, monsignor Basilio Do Nascimento Martins. In basso il Pacifico brilla sotto il sole tropicale e pervade di brezza le stanze della diocesi, sul lungomare della capitale di Timor Est. Da quando è morto il vecchio vescovo Alberto Ricardo da Silva, lo scorso 2 aprile, monsignor Basilio si sposta da Baucau a Dili, una settimana al mese. «C’è molto lavoro – spiega, nel via vai di fedeli che affollano il cortile – fra pochi giorni celebreremo un anniversario importante: cinque secoli di evangelizzazione. Qui, dall’altra parte del Pianeta!». Il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato Vaticano, sta già preparando i bagagli. Il prossimo 15 agosto sarà lui a dir Messa nella spianata di Tassi Toli. Papa Francesco lo ha nominato legato pontificio per celebrare il quinto centenario e ribadire la vicinanza tra la Santa Sede e Timor Est. Un connubio che si concretizzerà con la firma di un concordato, cui la diplomazia vaticana lavora da dieci anni. «Lo aspettiamo con trepidazione – dice monsignor Basilio – sarà il coronamento di una storia iniziata cinque secoli fa e mai terminata».
Era l’agosto del 1515. Cristoforo Colombo aveva toccato le sue “Indie” da una ventina d’anni. Ferdinando Magellano e la sua spedizione attorno al mondo dovevano ancora entrare nella Storia. Ma un vascello di missionari dominicani portoghesi era già approdato a Lifau, sull’isola di Timor, il più a est degli insediamenti lusitani. L’isola del sandalo e delle dispute infinite. «Prima quella commerciale tra i colonizzatori portoghesi e gli olandesi della Compagnia delle Indie orientali – racconta il magistrato portoghese Pedro Pinto Leite, segretario della Piattaforma internazionale di giuristi per Timor Est – più recentemente, quella politica e religiosa con la vicina Indonesia, che occupò il Paese nel 1976, subito dopo il ritiro del Portogallo. La cruenta guerra di liberazione che ne seguì, portò all’indipendenza del piccolo Stato, ventitré anni più tardi. Ma per giungere ad una completa pacificazione è stato necessario oltre un decennio. I timorensi hanno dovuto vivere con i caschi blu delle Nazioni unite in casa, fino al 2012. In tutto questo, va detto, la Chiesa non li ha mai abbandonati». Oggi il 97 per cento della popolazione si professa cattolico di rito romano. Prima dell’invasione indonesiana, nel 1975, erano il 22 per cento.La cattedrale di Santo Antonio da Motael, di domenica mattina, è un alveare di fedeli gremito in ogni ordine di posti. Chi è arrivato tardi si assiepa sul sagrato, riparandosi dal sole all’ombra dei pochi alberi. «È una questione identitaria – spiega Alfonsina Cardoso, mentre si tampona il sudore con il fazzoletto – gli indonesiani ci obbligavano a indicare una religione sul documento d’identità. Professarsi cattolico divenne una bandiera». «I timorensi hanno vissuto l’indipendenza come l’intervento diretto di Dio nella loro vita – spiega ancora monsignor Basilio – la Chiesa ha difeso la popolazione e ha denunciato con fermezza le violenze commesse dall’esercito indonesiano, durante l’occupazione militare. Poi, negli anni Novanta ha lavorato per la riconciliazione, svolgendo un ruolo diplomatico all’interno del tessuto sociale e politico. Gli indonesiani stavano tentando di dividere il popolo. La Chiesa non lo ha permesso».
Da queste parti tutti ricordano ancora la storica visita di Giovanni Paolo II, il 12 ottobre del 1989 e il suo discorso sul “sale della terra”. «Non importa quali siano le differenze, le ferite o le offese – disse in quell’occasione Wojtyla ad una folla di fedeli radunata nella valle di Tassi Toli – noi che siamo seguaci di Cristo dobbiamo tenere a mente queste parole: perdonate e vi sarà perdonato, amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori». «Fu deflagrante – ricorda monsignor Basilio – attirò su Dili gli occhi dei mass media. Si accorsero di noi, finalmente». Una visibilità mediatica che si intensificò due anni dopo, il 12 novembre del 1991, dopo la strage commessa dalle truppe indonesiane nel cimitero di Santa Cruz, in cui persero la vita 300 manifestanti. «Da quel giorno cambiò tutto – ricorda Roque Felix Rodrigues, che all’epoca era un’attivista del Fronte rivoluzionario per la liberazione di Timor Est (Fretelin) e che poi sarebbe divenuto ministro della Difesa nel primo esecutivo del 2001 – il video girato da due giornalisti americani, Amy Goodman e Allan Nairn fece il giro del mondo. Provocò indignazione. Oggi che il sogno dell’indipendenza si è realizzato e i riflettori dei mass media si sono smorzati, resta da costruire un Paese, una società e un’economia».Sul beira mar di Dili i ragazzi vendono il pesce. Si compra tutto in dollari statunitensi e il costo della vita non è certo tra i più economici, specie se confrontato con quello della vicina Indonesia. Il centevo, che svolge la funzione di valuta locale, serve un’economia parallela, quella della gente comune, povera, che non di rado usa ancora il baratto come forma di scambio. Del resto, Timor Est è costretta ad importare praticamente tutto. Le uniche materie prime che esporta, assieme al caffè, sono petrolio e gas. E il petrolio si paga in dollari americani. Stampare banconote non conviene, diverrebbero immediatamente carta straccia» osserva James Dunn, puntando gli occhi azzurri fuori dalla finestra del suo albergo, nel centro di Dili. Mezzo secolo vissuto per quelle strade, prima come console australiano, poi come membro dell’Untaet, la missione transitoria delle Nazioni unite, che amministrò il Paese fino al 2002. «Oggi Timor Est è un Paese indipendente dal punto di vista politico – dice – ma bisogna constatare che non lo è affatto da quello economico. Le armi non sparano più, ora si fa tutto con il danaro. La Cina e la stessa Indonesia stanno tentando di accaparrarsi il mercato di Timor Est. E la libertà che il popolo timorense si è guadagnata dopo atroci sofferenze, non è ancora scontata, né automatica. Va sempre difesa e sempre recuperata. Basti pensare alle attività di spionaggio del governo australiano, emerse lo scorso anno, circa l’utilizzo delle acque territoriali».Materia del contendere, le grandi quantità di petrolio e gas naturale presenti nel Timor Gap, una porzione di oceano divisa tra i due Paesi. Circa 40 miliardi di dollari il valore stimato delle riserve. Una querelle finita di fronte alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja e che ha come oggetto la delimitazione definitiva dei confini marittimi. «Il petrolio c’è – dice monsignor Basilio – ma non è sufficiente a basar su di esso l’intera economia nazionale. Servono attività alternative: il turismo, la pesca, l’estrazione di minerali come il magnesio, l’agricoltura. Il motore dello sviluppo sono le risorse. E oggi Timor Est, con poco più di un milione di abitanti, potrebbe considerarsi un Paese ricco. Il problema fondamentale è che non esistono ancora le risorse umane in grado di amministrare bene questo danaro». «La grande sfida è quella di migliorare sensibilmente le condizioni di vita della gente – conviene James Dunn – ci sono villaggi poverissimi nell’entroterra del Paese. E si stanno ampliando le differenze socio-economiche. La Chiesa è stata un collante durante gli anni bui dell’occupazione, ha tenuto uniti i timorensi. Oggi può rivestire un ruolo importante, nel ridurre il divario tra ricchi e poveri».