martedì 14 luglio 2009
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Sei attentati pressoché in contem­poranea contro altrettante chiese cristiane a Baghdad non sono ovvia­mente casuali. E non possono essere derubricati a vendette locali o a effet­to delle violenze che stanno purtrop­po nuovamente aumentando nella martoriata capitale irachena. Si tratta al contrario di un deliberato attacco contro la presenza cristiana e contro i simboli più evidenti di questa comu­nità: i suoi luoghi di culto. Addolora fortemente la conta dei mor­ti e dei feriti, ma impressiona anche la simultaneità e la facilità con cui sono stati raggiunti obiettivi che il governo di al- Maliki ha da tempo promesso di proteggere: il timore è che si sia vicini a una nuova ondata di violenze e pre­varicazioni, come in passato le comu­nità cristiane hanno già dovuto subire, a Baghdad, a Mosul e in altre città del Paese. Da anni le frange più violente e radicali considerano la presenza cristiana nel­le nazioni musulmane un pericolo per l’islam e una prova ' dell’aggressione occidentale'. Una follia storica, dato che queste comunità risiedono da pri­ma della comparsa della religione mu­sulmana, con la quale hanno poi con­vissuto per millecinquecento anni. In Iraq, recentemente, le milizie jihadiste hanno colpito duramente i cristiani i­racheni: dovessero riprendere le vio­lenze qaediste, essi sarebbero ancora una volta degli obiettivi prioritari. Nel ribadire la propria vicinanza spiri­tuale alle comunità cattolica e orto­dossa di Baghdad, il Papa ha nuova­mente richiesto alle autorità irachene ogni sforzo per « promuovere una coe­sistenza giusta e pacifica » .E forse un altro obiettivo degli attentatori è pro­prio questo: attaccare la minoranza cri­stiana per catturare l’attenzione inter­nazionale e dimostrare l’incapacità delle forze di sicurezza locali di garan­tire la sicurezza. Soprattutto dopo il passaggio ad esse – dalle forze milita­ri statunitensi – del controllo diretto sulla capitale e le altre città, avvenuto alla fine di giugno. Il riposizionamento dei soldati Usa è infatti uno dei capisaldi per il ritiro de­finitivo dal Paese previsto da Washing­ton entro la fine del 2011: ovviamente ciò presuppone che le forze militari e di polizia siano in grado da sole di ge­stire l’ordine pubblico e impedire vio­lenze sistematiche. In queste prime settimane, purtroppo, si è assistito a u­na recrudescenza degli attentati. No­nostante la sicurezza ostentata dal go­verno, molti politici e ufficiali irache­ni sono pessimisti, ritenendo che la si­tuazione sia peggiore di quella di po­chi mesi fa e migliore di quella che del prossimo autunno. L’aumento degli scontri e dei morti – anche in una prospettiva di ripresa del­le lotte settarie, inter- etniche e inter­religiose – è, insomma, dato per scon­tato in vista delle nuove elezioni poli­tiche previste per il gennaio 2010, ele­zioni che ridisegneranno la geografia complessiva del potere. Le minoranze religiose, e fra di esse i cristiani, ri­schiano di finire nuovamente stritola­te nelle lotte per il controllo di città e province. Un pericolo letale per una comunità già indebolita dai colpi subiti in questi anni e dall’emigrazione di tanti fedeli. Eppure, il mondo sembra disattento, concentrato su altri e certo egualmen­te cruciali problemi: negli Stati Uniti, di Iraq proprio sembra non si voglia più parlare. Tuttavia, rischi del tracol­lo di uno scenario di sicurezza, dato per stabilizzato con troppa fretta, so­no tutt’altro che teorici. E tutte le par­ti in gioco, dal governo di Baghdad ai Paesi interessati, hanno il dovere di di­fendere la comunità cristiana, da sem­pre legata a quei territori, la cui so­pravvivenza e libertà d’espressione in Iraq è la miglior risposta ai fanatismi, alle intolleranze e alle visioni di scon­tri fra civiltà.
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