Sei attentati pressoché in contemporanea contro altrettante chiese cristiane a Baghdad non sono ovviamente casuali. E non possono essere derubricati a vendette locali o a effetto delle violenze che stanno purtroppo nuovamente aumentando nella martoriata capitale irachena. Si tratta al contrario di un deliberato attacco contro la presenza cristiana e contro i simboli più evidenti di questa comunità: i suoi luoghi di culto. Addolora fortemente la conta dei morti e dei feriti, ma impressiona anche la simultaneità e la facilità con cui sono stati raggiunti obiettivi che il governo di al- Maliki ha da tempo promesso di proteggere: il timore è che si sia vicini a una nuova ondata di violenze e prevaricazioni, come in passato le comunità cristiane hanno già dovuto subire, a Baghdad, a Mosul e in altre città del Paese. Da anni le frange più violente e radicali considerano la presenza cristiana nelle nazioni musulmane un pericolo per l’islam e una prova ' dell’aggressione occidentale'. Una follia storica, dato che queste comunità risiedono da prima della comparsa della religione musulmana, con la quale hanno poi convissuto per millecinquecento anni. In Iraq, recentemente, le milizie jihadiste hanno colpito duramente i cristiani iracheni: dovessero riprendere le violenze qaediste, essi sarebbero ancora una volta degli obiettivi prioritari. Nel ribadire la propria vicinanza spirituale alle comunità cattolica e ortodossa di Baghdad, il Papa ha nuovamente richiesto alle autorità irachene ogni sforzo per « promuovere una coesistenza giusta e pacifica » .E forse un altro obiettivo degli attentatori è proprio questo: attaccare la minoranza cristiana per catturare l’attenzione internazionale e dimostrare l’incapacità delle forze di sicurezza locali di garantire la sicurezza. Soprattutto dopo il passaggio ad esse – dalle forze militari statunitensi – del controllo diretto sulla capitale e le altre città, avvenuto alla fine di giugno. Il riposizionamento dei soldati Usa è infatti uno dei capisaldi per il ritiro definitivo dal Paese previsto da Washington entro la fine del 2011: ovviamente ciò presuppone che le forze militari e di polizia siano in grado da sole di gestire l’ordine pubblico e impedire violenze sistematiche. In queste prime settimane, purtroppo, si è assistito a una recrudescenza degli attentati. Nonostante la sicurezza ostentata dal governo, molti politici e ufficiali iracheni sono pessimisti, ritenendo che la situazione sia peggiore di quella di pochi mesi fa e migliore di quella che del prossimo autunno. L’aumento degli scontri e dei morti – anche in una prospettiva di ripresa delle lotte settarie, inter- etniche e interreligiose – è, insomma, dato per scontato in vista delle nuove elezioni politiche previste per il gennaio 2010, elezioni che ridisegneranno la geografia complessiva del potere. Le minoranze religiose, e fra di esse i cristiani, rischiano di finire nuovamente stritolate nelle lotte per il controllo di città e province. Un pericolo letale per una comunità già indebolita dai colpi subiti in questi anni e dall’emigrazione di tanti fedeli. Eppure, il mondo sembra disattento, concentrato su altri e certo egualmente cruciali problemi: negli Stati Uniti, di Iraq proprio sembra non si voglia più parlare. Tuttavia, rischi del tracollo di uno scenario di sicurezza, dato per stabilizzato con troppa fretta, sono tutt’altro che teorici. E tutte le parti in gioco, dal governo di Baghdad ai Paesi interessati, hanno il dovere di difendere la comunità cristiana, da sempre legata a quei territori, la cui sopravvivenza e libertà d’espressione in Iraq è la miglior risposta ai fanatismi, alle intolleranze e alle visioni di scontri fra civiltà.