Gli assetti istituzionali del Paese fra presente e riforme Il protocollo fra Italia e Albania per “esternalizzare” l’arrivo di quasi 40mila migranti l’anno? Lo si attui senza discuterne in Parlamento. La manovra di bilancio? La si discuta in tempi contingentati e, se possibile, senza emendamenti parlamentari (dopo che negli anni passati si è assistito al suo esame di fatto da una sola commissione di una sola Camera). Col passare del tempo, si infittiscono segnali pericolosi, quasi di fastidio, con i quali il potere esecutivo, malgrado parta già da una posizione di forza costituita dalla netta maggioranza sancita dalle elezioni, cerca di limitare al minimo la convivenza costituzionalmente prevista con il potere legislativo esercitato dalle Camere. Quasi una riforma costituzionale fatta passare “sotto silenzio”, confidando in una sorta di disinteresse generale dell’opinione pubblica e nella allergia da “anti-politica”. Ma, anche, quasi un’anteprima di quel premierato che è sul piano ufficiale la riforma costituzionale di questa mag-gioranza di destra-centro, finalizzato a dare stabilità all’esecutivo. Perché in filigrana è proprio questo disegno quello che si intravede dietro molte, recenti mosse della premier Meloni (ma anche di alcuni suoi ultimi predecessori).
L’esame dei parlamentari – il cui numero peraltro è stato già ridotto a 600 – non è più visto come un potenziale arricchimento nel percorso di costruzione di un provvedimento, ma come una zavorra di cui liberarsi al più presto, con le due Camere ridotte al simulacro di un potere dei tempi andati. È un fenomeno arcinoto la cronica tendenza ad abusare dello strumento dei decreti-legge che accorciano i tempi parlamentari, prassi che è stata oggetto anche di ripetuti richiami del presidente Mattarella (anche sulla eterogeneità dei temi trattati in uno stesso decreto): il governo Meloni ne ha già varati oltre 40 e detiene il primato della produzione, con una media di 3,6 decreti al mese. Le origini del fenomeno sono antiche, quando l’ostruzionismo parlamentare estremizzato ai massimi complicava non poco l’iter legislativo. Come spesso accade, però, anziché cercare un corretto equilibrio fra poteri (a cui doveva mirare la stessa riforma dei regolamenti delle Camere), si è dato vita a un crescendo di distorsioni che sta alterando la corretta vita istituzionale del Paese, trasformando le aule del Parlamento in un’officina di tessere infilate per votare. Vi hanno contribuito pure i listini bloccati, sistema che pur poteva essere usato in modo virtuoso, ma che invece i leader di partito (e potenziali futuri premier) hanno usato soprattutto per rafforzare il potere attorno alle loro figure.
Davanti alla recente riforma del premierato qualcuno è arrivato a parlare persino di “cesarismo” da parte della presidente del Consiglio, già usa ad affrontare solo con una cerchia ristrettissima di collaboratori temi anche assai delicati, come la tassa sui cosiddetti extraprofitti o la cessione all’estero di un’infrastruttura vitale come la rete telefonica. Tante tessere che compongono alla fine il mosaico di una crescente dedemocratizzazione del Paese. Al di là dell’esito che i cittadini daranno al premierato nel referendum che seguirà i voti parlamentari, sarebbe bene cominciare a occuparsi anche di un sano riequilibrio dei poteri. Per far vivere il Parlamento e non svilirlo al ruolo di passacarte. È anche questa una riforma che noi cittadini dobbiamo esigere.