Che cosa dovrà fare Barack Obama per meritare il premio Nobel per la Pace che ha vinto ieri, tra la sorpresa generale? Se si vuole prendere sul serio il riconoscimento, la domanda non è provocatoria, né sottovaluta i meriti che il presidente americano ha già maturato nei suoi primi dieci mesi di mandato. Impossibile dissentire dal Comitato norvegese quando, nelle motivazioni, afferma che «solo raramente una persona come Obama ha catturato l’attenzione del mondo». Ma non risulta neppure malevolo pensare che i giurati abbiano scelto anche – o soprattutto – un anti-Bush (in tutto, all’apparenza – dall’Iraq all’unilateralismo, dal clima a Guantanamo –, forse un po’ meno nei fatti). Oppure abbiano pensato a un’incoronazione 'preventiva', giocando sulla parola chiave della dottrina strategica del predecessore alla Casa Bianca. Che cosa rappresenti oggi il primo afro-americano a diventare leader dell’iperpotenza planetaria l’hanno colto in alcuni commenti Angela Merkel, il premier giapponese Hatoyama e Nicolas Sarkozy: ha creato una finestra di opportunità; ha instaurato un nuovo clima; ha riportato gli Usa nel cuore di tutti i popoli. Si è spinto ancora più in là Shimon Peres, già insignito a Oslo: ha cambiato lo stato d’animo del mondo. E vi è molto di vero in tutto questo. Tuttavia, si tratta delle premesse alla pace. Obama ha aperto tanti tavoli, mostrando un nuovo volto degli Stati Uniti. Ha cominciato con l’avvio di un (lungo) ritiro da Baghdad, la guerra più controversa, quella che ha portato mezzo Pianeta in piazza contro Washington. Sono seguite la disponibilità al dialogo con l’Iran di Ahmadinejad (che però stenta a decollare); la mano tesa all’islam dal Cairo in giugno; il rilancio di un approccio multilaterale con il discorso di Berlino rivolto all’Europa a luglio, la rivalutazione del ruolo dell’Onu nell’impegnativo intervento di settembre al Palazzo di Vetro e il varo del G20 a Pittsburgh come foro internazionale allargato di decisione. Sono seguiti l’allarme per il clima («Se non agiremo, rischiamo di consegnare alle future generazioni una catastrofe irreversibile») e il forte appello al disarmo nucleare, la rinuncia allo Scudo anti-missile come disgelo verso Mosca, un tentativo di ripresa di trattative in Medio Oriente e i timidi segnali in direzione di Cuba, da decenni sotto embargo. Molte dichiarazioni d’intenti – come quella sulla chiusura di Guantanamo che potrebbe restare sulla carta – e ancora nessun risultato raggiunto al cento per cento. Obama ne è consapevole e perciò ha detto di interpretare il premio come «chiamata all’azione per tutte le nazioni nel XXI secolo». Rifiutarlo perché ingiustificato, secondo il suggerimento di qualche avversario, sarebbe stato un gesto più sprezzante che umile. Non resta al presidente che meritarsi il Nobel sul campo. E non sarà facile, a partire dalla difficile partita iraniana (in cui l’opzione militare non viene esclusa) e dalla Conferenza sul clima di Copenaghen a dicembre, già minacciata dal fallimento. E la 'beatificazione' prematura potrebbe perfino costituire un peso più che un ausilio. Al di là delle pressioni per le aspettative (che un presidente americano porta comunque con sé), avere la massima onorificenza per la Pace sul bavero sarà d’imbarazzo quando serviranno fermezza e voce forte. O nel momento in cui dovrà autorizzare azioni di guerra, in Afghanistan all’ordine del giorno. Ricordatevi di Willy Brandt, il cancelliere tedesco della Ostpolitik, premiato nel 1971, hanno detto a Oslo: i risultati si videro in seguito. Il Muro però cadde 20 anni dopo e le ragioni furono molteplici. Meglio allora scegliere, con più coraggio, un dissidente cinese? Si potrebbe discutere a lungo dei pro e dei contro. Oggi festeggiamo Barack Obama. È arrivato alla Casa Bianca con l’«audacia della speranza» (titolo del suo best-seller). Non possiamo che tifare perché il Nobel che ritirerà il 10 dicembre sia negli anni ben guadagnato in un mondo almeno più multipolare e con meno ordigni nucleari. Obiettivi oggi alla portata del presidente «uomo di Pace».