Il mandato di un governo è scegliere, possibilmente per il bene comune. Come nella vita «che è la somma di tutte le vostre decisioni», diceva Camus, o forse di più, rinviare decisioni cruciali in materia di politica economica con il rischio, alla fine, di non scegliere affatto, potrebbe comportare un peggioramento delle condizioni per l’intera collettività.
Vero è che nell’epoca del divorzio fra potere – la facoltà di porre in atto un progetto – e politica – la capacità di decidere che cosa fare o non fare – l’impegno di governare risulta depotenziato in partenza. È altrettanto evidente, nel nostro Paese, l’intermittente evanescenza di una vera politica industriale. Di scelte coerenti, cioè, in grado di generare risorse pubbliche per investimenti in conto capitale. E attrarne di private, soprattutto capitali esteri, per allocare entrambe correttamente sui settori più produttivi e meno sussidiati nonché sulle grandi opere infrastrutturali indispensabili per la crescita dell’ecosistema d’impresa. Il governo gialloverde si ritrova tuttavia tra le mani almeno quattro dossier economici, oltre alla legge di Stabilità in autunno, per i quali il tergiversare o addirittura rinviare sine die una scelta significherebbe allestire il palco per la prossima recessione: Tav, Tap, Ilva e Alitalia sono una bella fetta di economia – e di reputazione – italiana.
Il caso dei treni ad alta velocità è in tal senso fra i più emblematici. Anni di confronto con il territorio, talora divampato in autentico scontro, hanno consentito di avviare nel 2011 – in Francia nel 2002 – i cantieri per la nuova Torino-Lione, snodo fondamentale di una rete ferroviaria di 5mila chilometri per il trasporto delle merci che in Italia viaggiano oggi "pesantemente", anche in termini di costi ambientali, su gomma. Il tratto internazionale vale 8,6 miliardi, finanziati al 40% dall’Unione Europea, ed entro il 2019 è prevista l’assegnazione di altri 43 bandi di gara, parte italiana, per un totale di 5,5 miliardi. Interessano 20mila imprese e 8mila lavoratori. In caso di stop la sola "penale" sfiorerebbe i 2 miliardi.
La rinuncia dell’Italia alla Tap, invece, potrebbe costare molto di più. Dai 15 miliardi stimati dal governo, una manovra di bilancio leggera, ai 40 valutati dall’ente energetico azero. Il gasdotto per l’afflusso del gas naturale proveniente dal Mar Caspio ridurrebbe infatti i costi di approvvigionamento e aumenterebbe la capacità energetica italiana con il relativo gettito fiscale.
L’Ilva di Taranto, terza questione calda, è potenzialmente la più grande acciaieria d’Europa. Richiedere agli acquirenti di garantire il massimo sforzo economico per la bonifica e la sicurezza ambientale – e per preservare tutti i posti di lavoro – è più che legittimo: è doveroso. Far saltare il tavolo e ipotecare la chiusura senza riconversione dell’impianto è un’eventualità da scongiurare in ogni modo. Che il cielo e il turismo italiani possano poi fare a meno di Alitalia perché a suon di rinvii i possibili compratori internazionali si defilano uno dopo l’altro e il vettore viene ceduto a pezzetti è, in termini di ricadute negative, una stima tanto elevata quanto difficile da azzardare. Di sicuro i contribuenti, fra buchi di bilancio risanati dallo Stato e prestiti pubblici a fondo perduto, alla compagnia di bandiera hanno già devoluto 7 miliardi e mezzo in trent’anni.
Con la legge di Bilancio, infine, il Governo Conte dovrà decidere se e come battere i pugni sui tavoli di Bruxelles, anche di fronte alla cocciutaggine tedesca, per avere tutti i margini di flessibilità possibili – vale a dire maggior deficit e quindi maggior debito – e aumentare così la spesa pubblica attraverso una politica fiscale pro ciclica. All’Italia è già stata concessa "tutta la flessibilità possibile": peccato sia servita al precedente esecutivo per tappare i buchi e alimentare la spesa corrente, non quella in conto capitale e cioè gli investimenti in infrastrutture, istruzione, innovazione e ricerca che completano un quadro coerente di politica economica. Quello in cui rientrano i casi sopra citati.
Qualche giorno fa il Governo ha festeggiato davanti a Montecitorio il taglio dei vitalizi alla Camera, cavallo di battaglia in campagna elettorale. Una "scelta", questa sì, davvero tempestiva. Bene, le casse dello Stato ci guadagneranno una ventina di milioni. Altrettanti i "cittadini" ne risparmieranno ogni anno per il mancato leasing del cosiddetto "Air Force Renzi", decisione anch’essa risoluta di Palazzo Chigi ed enfatizzata con tanto di telecamere a bordo.
Briciole pesantissime, ma pur sempre briciole. Per l’esecutivo legastellato ora è tempo di scelte ben più rilevanti. E ancor più urgenti per il destino del Paese intero. Decisioni da prendere in fretta senza messaggi contraddittori dalla maggioranza e magari con l’ausilio della Cabina di regia istituita per legge a Palazzo Chigi sulla valutazione della sostenibilità delle politiche economiche, del loro impatto ambientale e sociale. Dalla Tav alla Manovra, sono scelte con un minor tasso di consenso, certo, ma ad alto impatto sul bene comune. Quelle scelte difficili, poco "social", che non portano di solito gradimento, ma che determineranno il nostro futuro al bivio fra sviluppo e declino. Sono le vere scelte che la politica (meglio se con la "P" maiuscola) è chiamata a compiere.