La fine del periodo festivo (che vale per l’emisfero settentrionale del globo) è segnata da una notizia in positivo, che lascia spazio alla speranza: la crisi economica, dopo aver toccato il punto più basso fra giugno ed inizio luglio, mostra timidi ma concreti segni di recupero. Questo, in estrema sintesi, il giudizio espresso dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo), dopo un’analisi della situazione nei Paesi del G7: Canada, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Italia, Usa. A supporto, alcune cifre. Mentre appena due mesi fa la stessa Ocse aveva ipotizzato per l’anno in corso un calo del Pil del 4,1% rispetto al 2008, ora la stima è stata rivista: meno 3,7. Per l’Italia, il precedente meno 5,5 è stato ritoccato in un -5,2. Poiché le proiezioni si riferiscono a un’entità complessa qual è il Pil, sommatoria di molteplici fattori (produzione e consumi, investimenti e salari, spesa pubblica e imposte), gli errori sono più che possibili. Comunque, pur non escludendo sorprese, colpisce la constatazione che da qualche settimana è nettamente mutato il clima. Da fortemente preoccupato a rassicurante. «Va un po’ meglio», «il peggio è alle spalle». Parole che, anticipando l’Ocse, avevamo sentito uscire dalla bocca del riconfermato presidente della Fed americana Ben Bernanke, dal governatore della Banca centrale europea Jean-Claude Trichet, dal governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. D’altra parte, «il mercato», ovvero le Borse, in ossequio alla loro secolare visione anticipatrice (sia nel bene sia nel male), avevano visto gli operatori – i grandi speculatori – cambiar casacca: da ribassisti a rialzisti. Per il petrolio, le materie prime, la valutazione di aziende industriali e finanziarie. Detto altrimenti: l’incubo di un crac simile a quello degli anni Trenta del secolo passato pare scongiurato. Cessato allarme? Non proprio, essendo il cielo dell’economia sempre gonfio di nubi. Infatti, scongiurato il fallimento a catena di banche e d’imprese (persino la decotta General Motors si sta risollevando), preso atto che le istituzioni internazionali hanno agito e reagito con tempismo, molti interrogativi permangono. Primo e fondamentale: coloro che hanno sbagliato hanno appreso la lezione? Più di un dubbio è lecito dinanzi al rispuntare di nefaste pratiche: manager che tentano, in America e un po’ ovunque, di ricominciare con l’autoreferenzialità dei bonus, milioni lucrati indipendentemente dai risultati. Il che produrrebbe un «ritorno al passato». Imbrigliare i professionisti della speculazione comporta però la riscrittura dei codici di comportamento del capitalismo, declassando il profitto a vantaggio del bene comune. E ciò non sta avvenendo. Va inoltre considerato un risvolto dell’analisi Ocse. Laddove si afferma che, sì, la «ripresa verrà prima del previsto», ma «sarà lenta». Impiegheremo insomma, nella migliore dell’ipotesi parecchie stagioni a recuperare le posizioni perdute. Nel frattempo, chi ne farà le spese? La storia economica insegna: alle crisi finanziarie segue quella dell’economia reale. Guarita o quasi la prima, siamo alle prese col secondo stadio della malattia: disoccupazione e riduzione dei consumi. Comprensibile che i pochi osservatori non compromessi con i diabolici artefici del crac, si vadano ponendo domande. Lasciando trasparire risposte inquietanti. Su Le Monde di martedì 1 settembre, un grido d’allarme, intitolato Vive l’inflation?, che non necessita di traduzione. In sostanza, per salvare banche e circuiti finanziari, gli Stati hanno stampato dollari, euro, yen a rotta di collo. Nel contempo, azzerando i tassi d’interesse sui risparmi. Ne è scaturito un debito pubblico mostruoso, che solo una ventata inflazionistica potrebbe ridurre. Discorsi da cassandre? Auguriamocelo, sebbene non si possa sottacere la realtà: per salvare le banche, si lesina il credito alle piccole e medie aziende. Crescono ovunque disoccupati e cassaintegrati. La gente riduce gli acquisti. Fenomeno transitorio, di assestamento o «seconda ondata» di una recessione della quale fatichiamo a prefigurare i contorni? Su questo, l’Ocse evita di esprimersi. C’è da sperare colmi con sollecitudine la lacuna. Infatti, o la «ripresa» vale per tutti, o produrrà sconquassi sociali. I troppi tecnocrati in circolazione ne siano consapevoli.