Inarrestabile, come un’onda oceanica. Più forte degli avvertimenti, delle minacce, della brutalità delle forze di sicurezza, degli arresti, delle violenze fisiche e psicologiche, del sangue versato nelle strade: a mesi di distanza dall’inizio delle proteste popolari, l’«onda verde» dei giovani riformisti iraniani è tutt’altro che domata. Nel giorno dell’Ashura – la celebrazione del martirio del terzo imam Hossein – gli scontri in varie città del Paese testimoniano le difficoltà degli ultra-radicali nel gestire la più grave crisi di legittimità della Repubblica islamica e il salto di qualità delle proteste popolari. Pur privi di una guida veramente carismatica e, anzi, con i principali leader riformisti che invitano alla moderazione, le masse di giovani nelle piazze non contestano più solo i massicci brogli che hanno portato alla rielezione del presidente Ahmadinejad, ma arrivano a sfidare la stessa figura del Leader supremo. Fino a qualche mese fa, almeno pubblicamente, dopo un pronunciamento del Rahbar , tutti si adeguavano. Come si diceva a Teheran, «se Khamenei dice che lo yogurt è nero, allora è nero». Ora non più: Mussavi, Karrubi e Khatami da tempo non si adeguano alle sue perentorie richieste di porre fine alle dimostrazioni dei propri sostenitori. E ora i giovani arrivano a scandire slogan diretti contro di lui. Un 'alzare il tiro' pericoloso e ricco di incognite: da un lato, può portare il regime a scatenare una repressione massiccia; dall’altro lato, scuote le stesse fondamenta dottrinali della Repubblica islamica. Non è più in gioco solo il destino di un presidente considerato estremista e illegittimo. È a rischio la stessa struttura di potere uscita dalla rivoluzione del 1979. In ogni caso, i morti degli ultimi giorni impongono all’Occidente di uscire dal silenzio di questi mesi. Ossessionati dal ricercare un accordo a tutti costi sul nucleare – che monopolizza da anni ogni discorso politico sull’Iran – siamo stati troppo arrendevoli. Qualcuno, semplicisticamente, ha pensato che i riformisti avrebbero potuto essere una merce di scambio tutto sommato utile per ottenere un’intesa sull’uranio arricchito. Se è così, ci siamo sbagliati: l’Iran è sempre più vicino quanto meno a una 'bomba atomica latente', ossia possiede tutti gli strumenti per realizzarla, ma ancora non compie il passo finale, e le promesse di Teheran sono servite solo a guadagnare altri mesi. Che all’Occidente occorra un cambio di passo e una nuova strategia lo dicono ormai tutti. Più difficile indicare effettivamente verso quale direzione tendere. Bisogna innanzitutto evitare che il sostegno internazionale ai giovani – che manifestano nelle strade a rischio della loro stessa vita – finisca con l’essere controproducente. Il regime, in altre parole, non deve poterli accusare di essere 'quinte colonne' delle potenze straniere ostili, manovrate al fine di abbattere la Repubblica. Ma certo vi sono modi e vie per far capire ai moderati tradizionalisti, e a Khamenei stesso, che l’Occidente non sta cercando di ottenere il crollo del sistema post-rivoluzionario (come nei velleitari sogni della passata Amministrazione Bush). E che tuttavia nessuna democrazia può essere indifferente alle brutali repressioni delle proteste popolari. L’obiettivo deve essere, insomma, quello di non schiacciare ancor più il Rahbar e i conservatori sulle posizioni dei pasdaran e dell’attuale presidente ultra-radicale, bensì il contrario. Ahmadinejad ha polarizzato all’estremo la frazionata élite di potere iraniana, riuscendo ad attirare a sé lo stesso Khamenei. Sono i vertici religiosi moderati iraniani e una coesa ed efficace diplomazia occidentale a dover far capire al Leader supremo che questo abbraccio dei pasdaran rischia di essere mortale. Il suo principio guida è sempre stato quello di salvaguardare il sistema islamico rivoluzionario: ebbene, Ahmadinejad e le sue milizie ultra-radicali hanno dimostrato di essere una cura peggiore del 'male' riformista.