martedì 12 maggio 2009
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Si fa presto a dire ' multi'. Nella babele delle parole che in queste ore rimbalzano sui media, c’è spazio per un’Italia multietnica, multiculturale, multirazziale ed altro ancora. E probabilmente, nel circo della politica, l’enfatizzazione o la riprovazione nei confronti di certi termini risente ampiamente del clima pre- elettorale. Ma su una materia incandescente come l’immigrazione – e in una prospettiva che non si limiti a fronteggiare le ricorrenti emergenze ma voglia costruire scenari durevoli – ci sono dati di realtà dai quali è impossibile prescindere. E ci sono interrogativi che necessitano di risposte non emotive e capaci di suscitare consensi che travalichino le appartenenze ideologiche. I dati parlano di un’Italia in cui vivono 5 milioni di immigrati, un milione dei quali in condizione di irregolarità. Considerando solo la prima categoria, siamo al 6,5 della popolazione complessiva ( un punto e mezzo sopra la media europea), di cui più della metà proviene dall’Europa dell’Est. I minorenni sono 800mila, la metà è nata e cresciuta in Italia ed è verosimilmente destinata a rimanerci. La situazione odierna era assolutamente imprevedibile fino a poco tempo fa: tra l’inizio del 2007 e la fine del 2008 è entrato un milione di persone, e i demografi stimano che, se questo trend continuasse, la popolazione straniera sarebbe destinata a raddoppiare ogni cinque anni. Con immaginabili conseguenze sul piano degli equilibri sociali e culturali. Dunque, piaccia o non piaccia, la realtà ' racconta' un’Italia multietnica, popolata da 150 nazionalità, e dove con tutta evidenza – anche per la comprovata funzionalità dell’immigrazione alle esigenze del mercato del lavoro – questa pluralità è destinata ad accentuarsi. Ma etnie e culture non sono ingredienti che possono essere mescolati in un ' minestrone' in cui ogni sapore finisce per perdere la sua specificità. E l’Italia non è un Paese nato con l’immigrazione, nel quale sia ragionevole far ' ripartire da zero' una storia plurisecolare che ha radici profonde e molto qualificate. Chi sceglie di abitarlo deve fare i conti con un sistema giuridico, un modo di concepire la convivenza, il lavoro, l’istruzione, i rapporti tra uomo e donna, che si sono consolidati nel tempo e rispetto ai quali sono necessarie lealtà e condivisione totali. È a queste condizioni che la diversità delle culture può diventare occasione di reciproco arricchimento piuttosto che venire considerata una minaccia. In questo senso il segretario della Cei, monsignor Mariano Crociata, ha tra l’altro ribadito due giorni fa la positività di una società interculturale, a patto che venga « inserita in un rigoroso rispetto della legalità, necessaria garanzia per l’integrazione » . L’integrazione non è il frutto di formule magiche: è un processo che richiede tempo, pazienza e rigore, obiettivi chiari e condivisi, disponibilità a mettersi in gioco, vigilanza perché le diversità non degenerino nella costruzione di recinti chiusi e impermeabili – sdoganati nel nome del relativismo e del multiculturalismo che ne è il frutto – ma contribuiscano alla costruzione di una società aperta e plurale. Una società in cui gli elementi costitutivi della nostra storia vengano fatti conoscere a chiunque desidera mettere radici in Italia, proposti a tutti nelle scuole, testimoniati nella prassi quotidiana. Solo a queste condizioni è possibile edificare quella ' identità arricchita' che è l’obiettivo da perseguire per realizzare una società aperta e plurale, sicura e solidale. Ma sarebbe miope pretendere di affrontare le sfide epocali poste dall’immigrazione secondo una visione che si limiti alla dimensione nazionale. Per questo è fondamentale modificare – rivedendo in maniera sostanziale gli stanziamenti che in questi anni sono continuati a calare – le politiche di cooperazione allo sviluppo con gli Stati da cui provengono i flussi migratori più massicci. Ciò che oggi potrebbe sembrare mera beneficenza, è in realtà la condizione necessaria per cominciare a invertire i trend economici e sociali che ' producono' le migrazioni. È una responsabilità per l’Italia, ma chiama in causa l’Unione Europea. In un mondo che la globalizzazione rende sempre più piccolo, servono sguardi capaci di spingersi lontano, nello spazio e nel tempo.
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