Oggi il professor Vittorino Andreoli si congeda dal suo viaggio «attorno» alla figura del prete. È stato una sorta di «pellegrinaggio laico», acuto e appassionato, nel quale a colpirmi di più era di volta in volta la risposta di un numero elevato di lettori, le cui testimonianze riempivano oltre metà dello spazio dedicato ogni mercoledì all’iniziativa. Non sono certo, tuttavia, che proprio tutti abbiano compreso il senso di questo percorso. Perché lasciare che la figura del sacerdote venga cannibalizzata da chiacchiericci spacciati per inchieste giornalistiche e da libri di dubbia qualità e oscura finalità, nel silenzio e nell’imbarazzo di chi per il prete prova stima, a prescindere dalla propria partecipazione alla vita ecclesiale? Non possiamo nasconderci che proprio attorno al profilo del sacerdote si sta giocando oggi una partita decisiva per la nostra cultura. È come se sulle sue spalle si volessero scaricare quelle che vengono ritenute le aporie e le contraddizioni insanabili del cristianesimo nel suo rapporto con la modernità. Come a voler dimostrare che essere cristiani sul serio, nella fedeltà delle consegne, è impresa talmente ardua da risultare impossibile. Ecco perché in questo dibattito non possiamo mancare. Il prete non è una figura qualunque della fede: in qualche modo essa appartiene a ciascuno di noi. Per questo mi commuovevo ogni volta che Andreoli ripeteva: io amo i preti. Perché anch’io li amo. E non per qualche motivo legato alla mia attività, e neppure – sarò sincero – perché mi sia sempre andata bene con ciascuno di loro. Li amo piuttosto perché la mia fede è 'mediata' dal loro ministero. E se amo il prete, devo amare anche il suo mistero. Affermare ad oltranza che il sacerdote «è uno di noi», e lì fermarsi, credo ci conduca fuori strada. Solo infatti se diamo spazio al prete per quel che nella fede egli è, siamo in grado di percepire realmente il mistero del battesimo in cui siamo vitalmente inseriti. Un’idea, questa, che mi è parso un giorno di comprendere meglio raccogliendo la confidenza di un sacerdote ormai dispensato, che si stava organizzando la vita a prescindere dal ministero. Aveva un cruccio: non riusciva a partecipare all’Eucarestia domenicale senza – col pensiero – stendere al momento della consacrazione la mano, come per concelebrare. E ne soffriva. Finché, ad un corso di esercizi, si confidò col cardinal Martini, ricevendo all’incirca questa risposta: «Quell’assemblea cristiana non ti chiede questo servizio, c’è già all’altare chi consacra e spezza il pane. Il tuo gesto non serve a quei fedeli». Prete per noi, prete per me. Ecco perché non posso non pensare al prete. Ed ecco perché tutti dovremmo preoccuparci di più del futuro prossimo: stiamo procedendo, temo spensieratamente, verso il baratro di un’assenza di preti quale per secoli la nostra terra mai aveva conosciuto. Come saranno dopo le nostre comunità? Le nostre città? Le terre che abbiamo fin qui servito? Ha senso allora, eccome, riuscire a meglio comprendere qualcosa della vita del sacerdote. E averne a cuore le istanze, i problemi. Il sovraccarico di lavoro, dunque lo stress; la solitudine come difficoltà relazionale rispetto ai confratelli, al vescovo avvertito magari lontano, agli uffici di curia astratti e neoautoritari; e la delusione che talora minaccia di subentrare, con un inquietante senso di svuotamento… Una confidenza: in questi ultimi mesi ho personalmente ricevuto email di sacerdoti che mi hanno fatto molto pensare. Magari erano arrabbiati perché condividevano poco o nulla di quel che avevano letto sul giornale, ma la loro pretesa per quanto circoscritta, è per me un allarme. Davvero siamo tutti consapevoli di quella che è la posta in gioco nell’equilibrio richiesto ad ogni sacerdote? I fedeli laici a questo punto penseranno che loro possono farci poco. E invece no, in realtà possono e possono abbastanza in termini di vicinanza affettuosa, di offerta di collaborazione stabile ma anche occasionale; di discrezione ed interesse fraterno, mai invadente, mai soffocante; di disponibilità di amicizia non sostitutiva di null’altro che dell’amicizia. Certa vulnerabilità dei preti mi riguarda. E mi fa sentire responsabile. Dal loro equilibrio e dalla loro maturità molto dipende del benessere complessivo. Lo so, è un discorso da continuare, e che anche qui riprenderemo. Ripetendoci sempre, senza stancarci: noi vogliamo bene ai nostri preti. (d.b.)