Caro direttore,
sono una assidua lettrice di 'Avvenire', e quando esco dall’edicola lo porto con orgoglio perché è una lettura formativa, corretta, poliedrica – se si può usare questo termine –, e alla fine rimane in me un sentimento di serenità e di speranza. C’è chi mi ricorda sempre che 'è il giornale dei vescovi' e quindi 'di parte'. Rispondo loro che è il giornale per i credenti e anche per i non credenti che desiderano, informandosi bene, diventare sempre più 'credibili'. Le scrivo perché, in queste ultime settimane, è stato forte (e lo è tuttora) il dibattito sulla eutanasia, o sul 'camuffarla' come unica via d’uscita al dolore grave dei malati, al dolore insopportabile. In Italia invece, e precisamente nella regione Veneto, grazie all’allora consigliere regionale Guido Trento (faceva parte delle minoranze), è stata approvata una legge, che, mi creda, se venisse 'copiata' da altre Regioni porterebbe il dibattito, su un tema così delicato e così importante per la vita umana, verso l’aiuto vero al malato e non al- la morte procurata. La legge in questione è la numero 7 del 19 marzo 2009 (caso strano proprio il giorno di san Giuseppe, patrono della buona morte!) 'Disposizioni per garantire cure palliative ai malati in stato di inguaribilità avanzata o a fine vita e per sostenere la lotta al dolore' pubblicata nel Bur con il n.25 il 24 marzo 2009, essendo stata approvata all’unanimità dai 60 consiglieri regionali (unico caso da quando esiste la Regione), merito del consigliere promotore che ha fatto presentare la legge a un collega della maggioranza proprio per il bene comune, cioè con l’obiettivo di aiutare i malati gravi. Il ministro Speranza potrebbero farla propria approvandola in Parlamento. Sono convinta che sarebbe un grande passo della nostra società civile, proprio perché si aiutano i più fragili e i più deboli rispettando la vita morente e non uccidendo le persone. Auguro a lei e a tutta la redazione di continuare il vostro ottimo lavoro.
Maria Antonia Ciotti
È Pieve di Cadore proprio bella, la nostra comunità di lettori: facendoci quotidiana compagnia dentro la storia che attraversiamo insieme, è come se ci incoraggiassimo a vicenda a cercare percorsi per mostrare una soluzione possibile a grandi questioni come quella sollevata dalla lettera. Lo conferma lei, carissima signora Ciotti (che in un secondo messaggio ci informa di essere stata per 10 anni sindaco del suo paese, «e come credente penso d’aver fatto il possibile per il bene comune»). La documentata riflessione, alla quale il direttore mi chiede di dare risposta, nasce evidentemente da una frequentazione attiva del nostro lavoro informativo sui fatti e gli interrogativi attorno alle scelte di fine vita. E con la stessa passione che mettiamo nel tenere aggiornati i lettori, lei tiene a informarci di una valida legge regionale – stabilita con il fondamentale contributo di un consigliere di minoranza aperto e coraggioso – che incentiva il ricorso alle cure palliative come risposta umana quando la malattia e la sofferenza (anche in fase non terminale) si fanno più acute, talora insostenibili. Utile farne circolare la conoscenza, specie in una fase come questa nella quale la riflessione sull’ipotizzata depenalizzazione per legge dell’aiuto al suicidio tende a spostare l’attenzione dalla relazione di cura – il gesto del samaritano che si fa carico delle ferite altrui – all’autodeterminazione assoluta e solitaria, logiche antitetiche per affrontare il bisogno crescente di assistenza della parte più fragile della società. La scelta di percorsi e strumenti oggi è decisiva per capire che società saremo, e quale cittadinanza verrà data nei fatti al solidarismo che ci costituisce ancora, nel profondo, come popolo. Dunque, si fa ancora più pressante il nostro dovere di vigilanza, giornalisti e lettori insieme, per amplificare la flebile voce di chi non è ascoltato nella sua vera attesa di sostegno e attenzione. È vero quello che lei scrive, cara signora Maria Antonia: istituzioni che mostrano di non saper essere all’altezza di sofferenze e solitudini di chi patisce malattie e disabilità gravi inducono questa fascia di nuovi poveri del nostro tempo – in rapido aumento per l’inesorabile dinamica dei dati demografici – a credere che non ci sia più posto per loro in una società che si fa sempre più selettiva e nella quale l’infermità può diventare il marchio che destina all’emarginazione e allo scarto sociale. Siamo persuasi che lo Stato non possa ritrarsi davanti alle attese dei suoi cittadini mostrandosi agnostico sulla loro scelta di vivere o morire e rinunciando con l’alibi del rispetto per la libertà individuale a mettere in campo ogni misura per adempiere il suo primo dovere: tutelare la vita, condizione di ogni altro principio al quale si è impegnato a restare fedele per patto costituzionale. Complice di questo progressivo e inavvertito deragliamento è la cortina di silenzio calata invece su una legge in grado – se applicata – di colmare i vuoti ai quali ora si vorrebbe metter mano con la legalizzazione del suicidio assistito. Codificando «il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore», la legge 38 approvata in modo pressoché unanime dal Parlamento nel 2010 sanciva l’impegno solenne di «assicurare il rispetto della dignità e dell’autonomia della persona umana, il bisogno di salute, l’equità nell’accesso all’assistenza, la qualità delle cure e la loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze» attraverso il ricorso a un percorso terapeutico che guarda alla persona e non solo alla sua malattia. Con parole che ne hanno fatto un modello globalmente riconosciuto, vi si annuncia che «le strutture sanitarie che erogano cure palliative e terapia del dolore assicurano un programma di cura individuale per il malato e per la sua famiglia, nel rispetto» di alcuni «princìpi fondamentali», come la «tutela della dignità e dell’autonomia del malato, senza alcuna discriminazione», e della «qualità della vita fino al suo termine». Peccato che in 10 anni la legge in cui sono dettate le «Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore» abbia prodotto risultati assai lontani dall’altezza dei suoi intenti. Sessanta milioni di italiani oggi devono accontentarsi di 240 hospice (dei quali 63 concentrati in Lombardia), per un totale di 2.777 posti letto. Una goccia in un oceano di attese. Rispondere a ciò che manca aprendo la porta alla morte 'a richiesta' è il segno di un’intollerabile resa. Saremo allora accanto a lei e a tanti altri italiani, gentile lettrice, per spiegare che un’altra e ben più umana civiltà è ancora possibile.