domenica 27 gennaio 2013
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Caro direttore,
ascoltando la lettura dei giornali a 'Prima Pagina' (Radio3 Rai), venerdì scorso 25 gennaio, ho appreso che un importante commentatore de "La Stampa" non considera una conquista di «eguaglianza» il fatto che, ora, nell’esercito Usa le donne possano andare a combattere in prima linea. Nemmeno l’editorialista di "Repubblica" che questa settimana ha condotto la trasmissione apprezza questa «conquista». La donna a cui – dico io – è stato dato il compito di dare la vita, viene impiegata in questo compito di morte. Peccato che a queste "firme" non venga in mente una enorme contraddizione: dal momento che la legge (in Usa e anche in Italia) permette legalmente l’interruzione di gravidanza – che, tradotto, significa soppressione di un essere innocente – e che c’è chi considera questo una «conquista di libertà», non capisco come non si veda che questa scelta militaresca è la conseguenza della prima. Madre Teresa di Calcutta vedeva in queste leggi una grave minaccia per la pace, «Perché – diceva –, se io posso uccidere chi è in me, perché meravigliarsi che io possa uccidere in altre circostanze?».
Claudio Forti, Trento
 
Lei, gentile signor Forti, mette in evidenza un punto di riflessione (e di contraddizione) assolutamente essenziale. Madre Teresa ce lo proponeva prima di tutto con la chiarezza della sua stessa vita, spesa per gli altri, cioè con testimonianze irresistibili e con parole fulminanti come quelle che lei cita. Papa Benedetto ce lo indica con straordinaria e coinvolgente forza argomentativa. È proprio vero: continuiamo a scoprire che chi non sa rispettare e difendere la vita umana, chi non arriva a farlo "senza se e senza ma" (cioè senza arroganza, senza accanimenti e senza presunzioni di onnipotenza), non costruisce la pace e neppure la ama davvero. Detto questo, è molto importante che lei e io condividiamo un’altrettanto importante valutazione con il vicedirettore della "Stampa" Massimo Gramellini e con Ilvo Diamanti, pacato conduttore di "Prima Pagina", nella settimana che si conclude oggi e studioso della nostra società di cui stimo la lucidità e il rigore (può capitarmi di non condividere del tutto qualche sua opinione, ma ne apprezzo sempre la profondità e il garbo). Tutti noi, in sostanza, pensiamo che il poter «combattere in prima linea» sia un tristissimo e tragico diritto, un’antica e a volte eroica tragedia per gli uomini e tutt’altro che una conquista per le donne. Ma chi glielo dice, gentile lettore, che questo pensiero non ne abbia fatti venire altri in mente anche a quei due commentatori? E se non è accaduto stavolta, perché non potrebbe accadere domani? A nessuno di noi (neanche se cristiano) tutto è oggi immediatamente e permanentemente chiaro, e nessun pensiero e nessun dubbio sono estranei a chi si appassiona e ragiona sul serio delle grandezze e delle miserie, dei dolori e delle speranze degli uomini e delle donne. E, poi, continuo a sperimentare che ci sono diverse strade per arrivare al cuore dell’idea di "pace". La sua e la mia passano attraverso l’incontro col Principe della pace, l’Uomo della croce. È una strada che grazie a Dio mi è stata insegnata e che credo sia quella giusta, la via maestra, altrimenti non la farei pur con passo reso impacciato da cento umane preoccupazioni e dal peso della storia che ereditiamo e viviamo. Spero sempre che chi non fa questo percorso ci arrivi per un altro, magari – dal suo e mio punto di vista – camminando a ritroso: dal 'no' alla guerra e alla violenza, dal "no" all’illibertà e all’ingiustizia, sino al "sì" senza ombre alla vita. Vita umana che va rispettata e difesa sempre, ma soprattutto quando è più debole e fragile, quando è scomoda e disprezzata, quando è sconfitta agli occhi del mondo ed è senza voce.
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