Stati Uniti, quale politica per il Medio Oriente
venerdì 26 luglio 2024

Non ci si aspettavano grandi novità dal discorso del premier israeliano Bibi Netanyahu al Congresso statunitense di due giorni fa e in effetti si è sentito molto poco oltre al solito trito impasto di retorica roboante, alla difesa della sua volontà di continuare la guerra a ogni costo – presentata come una battaglia del bene contro il male – e alla sua smaccata preferenza per una vittoria di Trump alle prossime elezioni. Non a caso, l’influente ex speaker del Congresso, Nancy Pelosi, l’ha definito il peggior discorso mai tenuto in quella camera.
Tuttavia, l’irrisolto conflitto in Medio Oriente ci spinge ad allargare lo sguardo e a riflettere sulla possibile futura politica statunitense per quella regione, per noi così cruciale. E non si tratta solo di Bibi o delle violenze di Hamas, ma di re-immaginare una strategia globale da parte della prima superpotenza mondiale. Per quanto erratico, disinformato e, a volte, puerile, il pensiero di Trump è noto. Nella sua visione del mondo da fumetto americano, ci sono i buoni e i cattivi. Gli alleati e i nemici. La deriva massimalista del partito radicale e l’entourage attorno a “The Donald” ci dicono che un suo secondo mandato vedrebbe Washington completamente schiacciata sulla destra israeliana e più vicina alle monarchie arabe del Golfo, Arabia Saudita fra tutte. La demonizzazione dell’Iran è una costante del Trump-pensiero, così come della Cina e della sua crescente presenza nella regione mediorientale.
Ma è la strategia americana immaginata dai democratici che sembra essere maggiormente confusa. Biden, a dispetto delle sue intenzioni, ha raccolto pochissimo: fallita la riattivazione dell’accordo sul nucleare con Teheran – illogicamente cancellato da Trump nel 2018 –, la Casa Bianca non è riuscita a fermare la guerra a Gaza, né a risolvere alcuna delle tante crisi presenti. Lo Yemen è sempre più un problema internazionale, con gli attacchi missilistici degli Houthi che stanno paralizzando il più importante corridoio commerciale; di Siria non parla più nessuno, dato che tutto l’Occidente è incapace di decidere una strategia per una popolazione che sta ancora pagando lo scorso decennio di guerra civile; le monarchie arabe del Golfo procedono – spesso in ordine sparso – senza accordarsi (o peggio, senza consultarsi) con Washington; nell’Africa nel Nord e lungo la fascia sub-sahariana si è avuta una gravissima perdita di peso geopolitico, a tutto vantaggio di Russia, Cina, ma anche di Turchia e monarchie del Golfo.
Insomma, il bilancio della politica estera Usa verso il Medio Oriente è negativo. È molto dubbio che la lettura manichea e piegata alle tante lobby di Washington che domina fra i repubblicani possa essere la soluzione: più facile che fomenti altre tensioni e conflitti. Ma è difficile capire anche cosa potrebbe proporre una eventuale presidenza Harris: Kamala è molto a digiuno di politica estera e la strategia dei democratici oscilla cercando di conciliare visioni opposte e divergenti: da una parte la simpatia verso il Global South e l’iper-critica della civiltà occidentale, dall’altra una visione ripolarizzante e ingannatrice di democrazie contro autocrazie, quando la realtà è ben più complessa. A ciò si aggiungono: il giusto sostegno all’Ucraina che si mischia a una demonizzazione di ogni tentativo di mediazione, come se la diplomazia internazionale si potesse fare solo con gli amici, pena il diventare il cavallo di troia dei “pacifisti” (etichetta equiparata a grave insulto contemporaneo); le critiche agli eccessi di Israele contro la popolazione civile palestinese che rimangono mero esercizio verbale e acuiscono la percezione di un insopportabile “double standard” in tutto il Sud del mondo; la rivalità con la Cina cieca, tuttavia, alle ragioni della sua crescita di influenza. In Libia, per fare un semplice esempio, la città di Derna distrutta da una catastrofe naturale, ricostruita ora dai cinesi, che allarma sui loro reali interessi e obiettivi. Che certo esistono e non saranno molto nobili. Ma allora perché non l’abbiamo ricostruita noi occidentali?
Paradossalmente, proprio l’essere sostanzialmente “a digiuno” di politica estera permetterebbe a una presidente democratica come Kamala di ripartire dai fondamentali per immaginare una politica estera meno estemporanea e reattiva, più attenta all’incontro che al confronto, consapevole che il XXI secolo è caratterizzato da una pluralità geopolitica che va accettata e resa meno caotica, non negata o demonizzata. L’opossum Pogo, disegnato dal bravissimo Walt Kelly, dice «abbiamo incontrato il nemico, e siamo noi». Ecco, è tempo per Washington di liberarsi dai troppi condizionamenti interni e capire che alla complessità del mondo non si reagisce con la ipersemplificazione buoni/cattivi. Soprattutto in Medio Oriente, il regno della complessità.



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