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mercati vivono di convenzioni rialziste e ribassiste. Lo hanno imparato un po’ tutti. E un po’ tutti, in questi anni, hanno capito che tali convenzioni sono talvolta influenzate dall’esterno da fatti economici eclatanti legati all’economia reale, ma molto spesso accade il contrario. Sono, cioè, le stesse decisioni dei mercati a fare notizia e a influenzare l’economia reale. Questo è tanto più vero nel caso dello 'spread' in quanto ogni movimento dei tassi sul mercato secondario (quello in cui i privati si scambiano i titoli di Stato già emessi) ha degli effetti su prezzi e rendimenti delle aste primarie (la prima vendita dei titoli da parte dello Stato emittente) che producono conseguenze sul costo del debito pubblico e dunque sull’economia reale. Quello che è certo è che un mercato ad altalena, ovvero la presenza di ampie oscillazioni prodotte da tendenze stabili di lungo periodo prima rialziste poi ribassiste, è il massimo per fare guadagni in finanza dove è la volatilità e non la stabilità la 'virtù' più desiderata.L’efficacia dell’intervento del presidente della Banca centrale europea Mario Draghi è frutto della sua profonda conoscenza di questi meccanismi. E dell’aver saputo aspettare il momento migliore (il 25 luglio 2012) per lanciare il suo famoso avvertimento: la Bce avrebbe usato tutte le munizioni possibili ( «whatever it takes ») per contrastare le forze disgregatrici dell’euro e l’esplosione dello spread. Il momento propizio era quello di uno spread sufficientemente elevato (attorno ai 500 punti o poco meno) tale da convincere i mercati che, da quei livelli, sarebbe stato più redditizio scommettere sulla riduzione (avendo più strada da percorrere e la Bce come alleata) che sull’ulteriore aumento da quei livelli (dovendo affrontare il fuoco di sbarramento della Bce, con risorse potenzialmente infinite e con la possibilità di cambiare le regole del gioco). Da quel momento è stato evidente che l’altalena dei mercati avrebbe iniziato la sua oscillazione discendente e che solo dei terremoti dell’economia reale avrebbero potuto cambiare le cose. Nonostante tutte le turbolenze e le difficoltà politiche che nel nostro Paese a quella dichiarazione sono seguite, lo spread si è mosso verso il basso e con tutta probabilità continuerà a farlo ancora per un po’ (al di là delle piccole oscillazioni quotidiane in su e in giù).Molti, oggi, si domandano quanto possiamo guadagnare dalla tendenza in corso. La contabilità del debito è, in fondo, piuttosto semplice. Cento basis points in meno (un punto percentuale in meno) sul costo del debito pubblico (oggi attorno ai 2.000 miliardi) sono circa 20 miliardi risparmiati. Calcolando che la vita media del nostro debito è attorno ai 7 anni (tanto ci vuole per rinnovare tutto il parco titoli) i 20 miliardi si risparmierebbero in quell’arco di tempo a patto che la riduzione di 100 basis points restasse stabile per tutto il periodo (ipotesi irrealistica, visto quanto detto all’inizio sulle altalene dei mercati). Il che implicherebbe una mancata spesa per interessi di poco meno di 3 miliardi all’anno. In realtà, in questa fase, dovremmo cominciare a guardare meno lo spread (che ci dice il divario di costo di finanziamento tra le nostre imprese e quelle tedesche) e più il costo dei nostri titoli a lunga durata (che ci parla del costo del debito pubblico). La riduzione dello spread che stiamo osservando dipende infatti in buona parte dall’aumento dei rendimenti sui bund tedeschi. Un fenomeno derivante dal fatto che questi titoli cessano, in una situazione dei mercati migliore e nell’aspettativa della fine del ciclo economico negativo in Europa, di essere quella polizza contro le catastrofi per la quale gli operatori finanziari erano disposti persino a pagare un premio (ovvero un interesse negativo).Non dobbiamo perciò, in questo momento positivo, dimenticare l’ansia delle estati precedenti (in cui si discuteva sotto l’ombrellone di provvedimenti drastici come la 'patrimoniale' e i magnati più illuminati si lanciavano in dichiarazioni patriottiche 'pronti a fare la propria parte'). Dovremmo, piuttosto, imparare a sfruttare i momenti di bonaccia permettere da parte 'munizioni' efficaci percontrastare le tempeste future. Innanzitutto, le iniziative di governo per ridurre in modo significativo i rapporti deficit/Pil e debito/Pil, improntate non certo alla fallimentare teoria del 'rigorismo espansivo', ma a un giusto mezzo tra l’ossessione rigorista tedesca e lafollia espansiva giapponese. Contemporaneamente, le iniziative politiche per convincere i nostri partner ad una politica fiscale europea espansiva con investimenti produttivi nei settorigiusti. E, ultime ma non ultime, tutte le riforme necessarie per costruire un sistema finanziario non autoreferenziale, ma ben regolato e al servizio del bene comune. Non dobbiamo e non possiamo infatti rinunciare all’ambizione di imbrigliare le energie 'selvagge' dei mercati finanziari globali in una direzione utile all’economia reale e alla persona.
La storia della globalizzazione assomiglia per molti versi a quella della frontiera americana. Prima arrivarono gli 'spiriti animali' lungo la via del telegrafo (per noi quella del wifi e della rete), poi la legge. La seconda fase sta iniziando adesso, ma ci vorranno molto tempo e molti sforzi e sofferenze prima che sia compiutamente realizzata.