Sembra arrivato il momento, come dice un motto inglese, di mettersi a tavola con il diavolo. Il diavolo in questione è la Corea del Nord, che per ragioni esterne (la crisi globale) e soprattutto interne (le lotte di potere per la successione a Kim Jong-Il; l’indomabile carestia e la disastrosa situazione economica) si è fatta sentire a suon di esperimenti atomici, di lancio di missili, di minacce contro chiunque fermasse e ispezionasse le proprie navi, e di denuncia di quel trattato di armistizio che dal 1953 tiene lei e la sorella del Sud invischiate in una singolare «guerra-non guerra». I potenziali convitati sono la Corea del Sud, la Cina, la Russia, il Giappone e gli Stati Uniti. Tutti ridotti dal 'muso duro' di Pyongyang ( che lascia intendere di esser pronta ad azioni terrestri) ad uno spazio di manovra molto ristretto. Ma è in questo spazio che occorre muoversi, per odioso che sia il ricatto nordcoreano, se si vuole evitare un incendio di incalcolabili dimensioni. Tutti i potenziali convitati ne sono consapevoli, anche se, ovviamente, soltanto i maggiori possono sperare di essere ascoltati. La Cina, alleato storico della Corea del Nord (anche militarmente, in chiave anti-americana), dispensatrice della maggior parte degli aiuti alimentari ed energetici necessari a tenere in piedi la dittatura di Pyongyang, ora si mostra prudente al punto di condannare le iniziative più pericolose della dittatura stessa. E lo fa per diversi motivi (il rischio di una militarizzazione di Giappone e Taiwan, la messa a rischio dei propri investimenti, il timore di inquinamento nucleare), ma riassumibili in uno solo: il desiderio di salvaguardare ciò a cui Pechino tiene di più, la stabilità regionale. Ma la maggiore novità sul fronte politico-diplomatico viene adesso dalla Russia. Infatti Mosca, abbandonando i toni tradizionalmente concilianti con Pyongyang, dopo aver condannato assieme a Seul il recente test sotterraneo nordcoreano, ha preannunciato «misure preventive, anche di carattere militare » per impedire uno « sviluppo incontrollato» della situazione, che per ora affida a una risoluzione dell’Onu «ferma» ma che non sia «fine a se stessa». Manca, al momento, una presa di posizione convincente e articolata da parte degli Stati Uniti. Qualcosa cioè che vada oltre la scontata condanna degli esperimenti nucleari e missilistici e la minaccia di sanzioni finanziarie contro la Corea del Nord. La Segreteria di Stato ammonisce che Pyongyang deve «pagare un prezzo» per l’atteggiamento di sfida alla comunità internazionale, ma non spiega come e se si possa uscire dal punto morto provocato dall’Iniziativa di sicurezza contro la proliferazione (nucleare) voluta nel 2003 da George W. Bush; iniziativa che prevede anche il fermo e l’ispezione di navi sospette alla quale ha aderito la Corea del Sud provocando le ire di quella del Nord. Quel passo di Bush, accettabile in teoria, determinò in pratica un regresso rispetto all’accordo-quadro stipulato da Bill Clinton nel 1994, allora con l’effetto di determinare da parte di Pyongyang il congelamento della ricerca nucleare in cambio di cibo e aiuti nel settore energetico (anche del nucleare civile). In conclusione, mentre Pyongyang fa rullare i tamburi di guerra e si diffonde il timore più grande, che non è quello del lancio di missili nella regione ma della fornitura di ordigni nucleari a 'Stati canaglia' o a gruppi terroristici, non si vede altra soluzione pratica che invitare il diavolo a cena, per spingerlo a una tregua accettabile. Anche perché la sua eventuale impunità incoraggerebbe l’Iran a seguirlo sulla sua strada nucleare e appunto diabolica.