Come in tante altre occasioni, anche sul caso di Asia Bibi, la giovane madre pachistana accusata di blasfemia da un gruppo di colleghe e da un imam per aver difeso la propria fede cristiana, arrestata nel giugno 2009 e ora condannata alla pena di morte, Benedetto XVI ha saputo trovare parole che segnano uno spartiacque nella consapevolezza degli uomini e delle nazioni. Ieri, al termine dell’udienza generale, il Pontefice ha ricordato che «in questi giorni la comunità internazionale ha seguito con grande preoccupazione la difficile situazione dei cristiani in Pakistan, spesso vittime di violenze e discriminazione». E ha aggiunto: «In modo particolare oggi esprimo la mia vicinanza spirituale alla signora Asia Bibi e ai suoi familiari mentre chiedo che al più presto le sia restituita piena libertà». «Prego – ha concluso Benedetto XVI rivolto ai fedeli presenti – per quanti sono in situazioni analoghe, affinché i loro diritti siano pienamente rispettati». È proprio quanto si erano augurati i vescovi del Pakistan, che infatti hanno subito espresso al Papa un «sincero grazie per il suo grande coraggio, per la protezione dei senza-voce, di quanti sono vittime innocenti di violenze e sopraffazioni». Sta tutta in queste due immagini così complementari (Benedetto XVI che presta la propria voce a chi non può usare la propria) la forza di quelle frasi che, in un solo paragrafo, denunciano il male e ne indicano la cura. Le comunità cristiane perseguitate non solo in Pakistan ma nel mondo (violenze e discriminazioni sono registrate in 60 Paesi) soffrono per l’oppressione esercitata da regimi, maggioranze etniche e religiose e gruppi di pressione economica e criminale, spesso alleati. Ma non soffrirebbero così tanto se non le avessimo abbandonate a se stesse e a una capacità di resistenza sperimentata almeno in tredici secoli, cioè dal dilagare dell’islam in una vasta porzione del mondo allora conosciuto. Il governo italiano è certamente sensibile al tema, come il recente viaggio del ministro Frattini in Pakistan ha dimostrato, ma per molti altri non è un problema adattarsi ad alleanze politiche ed economiche con Paesi intolleranti della libertà religiosa (l’Arabia Saudita, per esempio) o anche solo incapaci di mantenere i buoni propositi come l’Egitto o lo stesso Pakistan. È una debolezza morale e un errore culturale. In Medio Oriente, in Asia, in Africa le comunità cristiane sono il miglior tramite per stabilire un proficuo rapporto con le civiltà locali, oltre che la più efficace rappresentazione dei valori su cui è fondata la nostra civiltà. È imperativo, dunque, che l’Occidente riconosca quelle antiche e nuove comunità cristiane come realtà rilevantissime e specialmente care, diverse e profonde espressioni d’Oriente eppure parti di sé, di noi tutti. È indispensabile questo riconoscimento non formale, per proteggere sempre quelle comunità perseguitate e difenderle, quando è il caso. Al Papa sono bastate poche parole. Di che cosa hanno ancora bisogno i governi e le istituzioni internazionali?