“Spaccare”, “arrivare” e l’innocenza fragile delle parole
domenica 5 novembre 2023

Immagini e termini armati infestano il nostro linguaggio. Ma certe espressioni sono pietre anche nel senso che possiamo usarle per costruire. E fermare l’orrore

Caro Tarquinio, nei talent show tv i giudici valutano spesso le prestazioni dei giovani concorrenti sulla base di quanto esse sono capaci di “spaccare” e “arrivare”. In tali programmi questi due verbi rappresentano metri di giudizio positivi: una performance è tanto migliore quanto più eccelle in queste due azioni. Ci si è indignati, forse a ragione, per la devastazione che un giovane cantante ha arrecato al palco di Sanremo durante l’ultimo festival, e ci si è interrogati sui motivi dell’ampia risonanza che tale gesto ha avuto. Chissà che questo deprecabile “spaccare” il proscenio del Teatro Ariston, “arrivando” in tal modo alla ribalta dei media, non siano stati semplicemente l’espressione distorta di due verbi che il cantante in questione si sarà sentito ripetere mille volte dai suoi motivatori, i suoi coaches.
Generalizzando il caso, è lecito domandarsi quanto il linguaggio che usiamo contenga germi di violenza che possono influenzare sottotraccia la nostra psiche e spingerla, in maniera apparentemente inspiegabile, a comportarsi brutalmente. Allo “spaccare” di cui sopra si possono aggiungere lo “sparare a zero”, lo “stendere gli avversari”, il “blindare il risultato” e molte altre espressioni che utilizziamo quotidianamente. Quando, ad esempio, ci affidiamo al “trouble shooting” per risolvere problemi o immortaliamo un lieto evento con uno “shooting” fotografico, usiamo senza accorgercene il verbo “sparare” (“to shoot” in inglese). Pare inevitabile che, in modo conscio o meno, tali espressioni generino assuefazione alla violenza nella mente di chi le usa e forse la fomentino.
“Spaccare” e “arrivare” sono due verbi che sintetizzano l’attuale situazione del mondo. A poche centinaia di chilometri a nord e ad est dell’Italia divampano, da mesi o da poche settimane, due conflitti che sono assurti a cifra della spaccatura tra Oriente e Occidente, con il rischio impellente di fratture ulteriori molto più vaste e profonde nel resto del pianeta, in una sorta di terzo conflitto mondiale diffuso. Come conseguenza, sulle nostre coste e ai nostri confini continuano ad “arrivare” quotidianamente, e sempre in maggior numero arriveranno, persone disperate, spinte via dai loro paesi a seguito di incrinature insanabili come quelle in Ucraina, in Israele e Palestina, in Sudan e in molte altre parti del mondo: talvolta purtroppo il loro arrivo ci coglie impreparati, indifferenti, addirittura ostili e termina in tragedia. Lo spaccare inconsulto e l’arrivare strafottente di un giovane cantante assurgono dunque a cifra della nostra drammatica attualità e del modo in cui, forse inconsapevolmente, ci rapportiamo alle cose e queste ultime ci ritornano addosso, richiamandoci alla nostra responsabilità. Dato che «le parole sono pietre» secondo il famoso adagio, e dato che il principale antidoto alla guerra è il logos (ragione, discorso, parola) – come i filosofi antichi ci ricordano e come ho avuto modo di richiamare mesi addietro sulle pagine di questo giornale – un primo atto di opposizione alla guerra degli eserciti che imperversa sul pianeta e che ci circonda sempre più da vicino è una riflessione seria sulle radici di guerra nascoste nel nostro linguaggio quotidiano.
Amos Bertolacci, Scuola IMT Alti Studi, Lucca

Caro Tarquinio, scrive Marco, un mio alunno: «Per me ogni conflitto è insensato. / Per me il mondo non dovrebbe essere bombardato. / Si uccidono uomini, donne, bambini. / Per me il mondo dovrebbe essere colmo di pace. / Amore, bontà, sorrisi, concordia vincano/ sull’odio, sul male, sulla brutalità, sulla rivalità. / Desidero che le inutili guerre finiscano /e nel mondo rifioriscano il bene e la pace. / Come la nostra cara Natura, / che soffre tanta violenza, / è capace, silenziosamente, di rinascere. / Sempre. / Così l’uomo, pazientemente. / è capace di risorgere. / Sempre».
Versi semplici. Scintille di bellezza. Di tenerezza. Di umanità. Che esprimono, con tenacia e ardore, l’anelito di pace degli adolescenti. La speranza in un mondo e in un Creato liberi da violenza e indifferenza. Il desiderio di armonia e di giustizia, insite nell’umanità e nella Natura, ma non sempre vissute e riconosciute. Un’attesa, oggi, disattesa: perché non si convertono i desideri dei giovani in promesse, le speranze in realtà, gli incubi in sogni. Con i miei studenti a scuola – palestra di fraternità e laboratorio di speranza – coltiviamo, con dedizione, la Verità, la Giustizia, l’Amore, la Libertà, cardini dell’Enciclica Pacem in Terris di Giovanni XXIII, e pilastri su cui costruire, sin da bambini nelle aule, vera pace.
«Non esiste bomba pacifista», recita una nota canzone: le grida di dolore si trasformino in “esplosioni” di pace; le Giornate di preghiera, digiuno, penitenza indette dalla Cei e da papa Francesco ne sono esempi. Perché «la preghiera si adempie meglio con gemiti e lacrime, più che con parole e discorsi» (sant’Agostino). Davvero – la cito – «la guerra è cosa da grandi. E la pace è roba da piccoli, da bambini»? Forse noi adulti dovremmo assumere lo sguardo, stupito, dei piccoli. Ammirarli. Ascoltarli. Imitarli. Essi, con coraggio e speranza, con insistenza e pazienza, cantano, ogni giorno, con le loro vite – con i volti e le voci, i gesti e le parole – un inno alla pace. Oggi inascoltato e ignorato.
Vito Melia, Scuola Media Rocca, Alcamo


Sono davvero grato ad Amos Bertolacci che, con la finezza delle sue riflessioni, ci porta a cogliere l’invadenza nel discorso pubblico di parole armate e di immagini guerresche. E questo sia quando usiamo con leggerezza parole gravi e taglienti della nostra bella lingua sia quando ricorriamo a espressioni prese di peso – è il caso di dirlo – da altri vocabolari che, a volte, sembrano più depositi di armi e munizioni che gli scrigni di gemme che pure sono.

Eppure, ogni umana parola è – in sé – preziosa e meravigliosa, poiché racchiude un po’ del significato e della sostanza della realtà ed è eco volenterosa, insufficiente, contraddittoria della Parola creatrice che – per chi crede – sta al principio di tutto, abita e illumina la storia e le storie e ne dirà l’esito.

Eppure, ogni parola è - in sé – innocente, proprio come le pietre a cui ogni tanto le parole accostiamo per ricordarci che purtroppo sappiamo usarle anche male e per far male, persino molto male. Le pietre, infatti, non rappresentano necessariamente un’offesa o una minaccia e sono utili a chi vuol costruire. Possono servire a edificare case, scuole, ospedali, luoghi di culto, d’arte, di divertimento – spazi che custodiscono, accolgono ed elevano - o possono essere ridotte a muri, a barriere che separano, respingono, allontanano. Per di più possono essere scagliate, le pietre, possono essere trasformate in proiettili capaci di ferire e di uccidere. Già, le pietre come le parole e come le nostre vite possono perdere la loro bellissima e fragile innocenza. Dipende da noi, da che cosa abbiamo nella testa e nel cuore. Dipende da quanto tacitiamo la coscienza. Dipende da come usiamo e rispettiamo – o non usiamo e non rispettiamo – l’intelligenza e l’anima. Dipende dai “maestri” che ci accompagnano, che ci aiutano a fiorire, oppure non lo fanno o non glielo lasciamo fare, o insegnano e spingono a “sparare”, a “spaccare”, ad “arrivare” a ogni costo.

Purtroppo, siamo ancora e sempre a rischio di intossicazione verbale e, dunque, di degenerazioni della politica, della vita civile, delle concrete condizioni esistenziali di persone, famiglie e gruppi sociali. E questo nonostante il fatto che nel cuore nero e insanguinato del Novecento abbiamo visto manifestarsi disastrosamente le conseguenze delle propagande odio, delle follie razziste, delle pretese suprematiste. Quei veleni sono restati in circolo, e negli ultimi anni – alimentati da incredibili smemoratezze e dalla ributtante tendenza a “etnicizzare” comportamenti e reati e – sono tornati a manifestarsi con violenza non solo simbolica soprattutto contro gli ebrei.

Il pensiero va inevitabilmente agli insopportabili slogan e atti antisemiti risuonati e compiuti in questi giorni anche nella nostra Italia, frutti marci di un’antica malapianta che spande i semi di una terribile corruzione dell’umano, dei (legittimi) sentimenti identitari e di appartenenze culturali e religiose e delle (altrettanto legittime) letture di conflitti che, come quello che ha ripreso ad assediare e a massacrare palestinesi e israeliani, dovremmo finalmente deciderci a governare e a comporre, smettendola di radicalizzare lo scontro. Una corruzione che assume diverse forme e che – in un pianeta in cui tutti siamo minoranza – si manifesta anche nelle forme della cristianofobia (la minoranza religiosa più diffusa e più perseguitata) e della islamofobia (la minoranza più soggetta a essere ingiustamente identificata con fazioni intolleranti ed estremiste).

Nella nostra modernità digitale che moltiplica i canali di comunicazione, avvicina le diverse parti del mondo e ingigantisce propagande e deformazioni, ci sono perciò indispensabili i razionali e ragionevoli antidoti che esistono e che, sempre nel Novecento, maestri buona volontà e di nonviolenza ci hanno insegnato a usare per vincere il male con il bene. Quegli antidoti che il professor Bertolacci torna a evocare e a indicare e che il professor Melia – attraverso i limpidi versi del suo allievo e mio omonimo, Marco – ricorda essere la piccola, grande e disarmante risposta alla presunzione dei (pre)potenti.

Rimedi all’orrore che hanno bisogno anche delle nostre passioni e dei nostri sentimenti: smettiamo di arruolarli negli eserciti materialmente e moralmente schierati a battaglia in un mondo che si tenta di nuovo di spaccare tragicamente in due. Salviamo la fragile innocenza delle nostre parole, e la realtà dura che esse spesso dicono e che devono aiutarci a cambiare nel segno umano e fraterno che, insieme e oltre errori e orrori, è nella nostra esperienza ed è alla nostra portata.




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