Milano, 15 luglio. Quest’aria torrida che ti investe come esci dal portone, che rimbalza dall’asfalto bollente, più calda ancora; questo nostro affrettarci da un marciapiede all’ombra all’altro, sfuggendo al sole a picco delle due. Che spietata estate, pensi, e hai negli occhi il letto del Po riarso, e i torrenti in montagna che non scrosciano più, ma quasi gocciolano. Torna l’anticiclone africano e questa volta si chiama Apocalisse4800. Apocalisse: abbiamo in testa in tanti, come un’ombra, l’idea di un imminente giudizio, o forse di un castigo. Per colpe di altri, o nostre – sì, forse anche nostre. Certo, battezzare un anticiclone Apocalisse non tranquillizza. Caronte, Lucifero, Caligola, si chiamavano quelli degli anni prima.
Chissà, ti chiedi, chi sceglie i nomi degli anticicloni? C’è un comitato? Trent’anni fa non mi pare che gli anticicloni avessero un nome. Faceva tuttavia parecchio caldo, forse non come oggi, eppure – ogni tanto – davvero tanto. L’aria condizionata, ne erano certi i nostri vecchi, faceva ammalare. Per cui si soffriva nell’afa molle, spalancando tutte le finestre a catturare un fiato di vento che non c’era. Si spiava il barometro, a vedere se indietreggiava, l’alta pressione inesorabile. E quando all’orizzonte si profilava un fronte di nuvole guer- riere si esultava: un temporale, finalmente. L’oscurarsi del sole, il battere di gocce rabbiose sui tetti. Ci si affacciava alla finestra, a respirare l’odore buono della terra calda e bagnata che esalava dai giardini.
Così calda era l’estate della mia maturità, china sui libri, la fronte gocciolante di sudore, non so quanto per l’afa e quanto per la paura. Così era l’agosto del 1995, quando, al nono mese, implorai san Bernardo, di cui dì lì a poco era la festa, di intercedere perché nascesse un po’ prima il bambino, perché con quel peso e quel caldo non riuscivo a camminare. (Bernardo nacque la mattina dopo, con dieci giorni di anticipo, bellissimo). E, l’estate del 2003? Ma già a quel punto noi ci si era modernizzati, aria condizionata ovunque, ma come avevamo fatto a vivere senza, fino ad allora? Già, fino ad allora. Se non erano 38 gradi erano 35 nelle vecchie estati nelle risaie del Novarese, alle catene di montaggio della Fiat, nei vagoni dei treni che lenti traversavano l’Italia. Senza nulla togliere al caldo del 2022, mi domando come si viveva in certi mesi d’agosto nelle cascine emiliane come fluttuanti in un velo di vapore, o sotto la spada delle estati siciliane – lungo le strade la terra spaccata dall’arsura sembrava martoriata.
E tuttavia si viveva, gli anticicloni erano anonimi, e non annusavamo nell’aria bollente segni oscuri di apocalisse. Innocenti, ignari o sbadati, non inseguivamo, sugli smartphone che non esistevano, annunci di nuove più feroci ondate di caldo. Perché poi quei nomi catastrofici a che servono, se non ad aizzare il numero dei contatti e magari dei like, l’audience insomma? Vedo gente rigorosamente blindata in stanze-frigorifero passare le ore a cercare sul web la profezia di un temporale. E proprio di rinuncia all’aria condizionata doveva parlare Draghi, quale effetto collaterale delle crisi energetica e della guerra? Solidali con l’Ucraina, avevamo alzato le spalle: l’aria condizionata, pazienza. (Ma, era solo aprile).
Ogni tanto nelle città un black out ferma le nostre macchine del freddo, non per molto, ma per abbastanza da lasciarci figurare un mondo senza energia, senza luce, senza web. L’Apocalisse no, però una fine di un mondo, se per mondo si intende quello occidentale. E riecco quelle segreta paura di un castigo che ci attende. Perché ora siamo quelli dei 5 Giga, della domotica, dei voli low cost, dell’idromassaggio in bagno. Tutto era diventato easy, smart, facile. E adesso il nostro universo brillante pare infranto. Caldo, sì, questo luglio – ma, anche, un pochino di paura: di avere perso irrimediabilmente il 'nostro' mondo. Spunta un ricordo, da un agosto torrido in Romagna. Mi ero persa in auto nella campagna, agognavo una bottiglia d’acqua. Un vecchio passava in bicicletta. «Quanto è lontano un bar?», gli chiesi. Mi guardò, sorridente: «Tutto è lontano, sotto a questo caldo», rispose. E riprese placidamente a pedalare, nel sole che picchiava come un fabbro.