C’è qualcosa, nelle cronache di dolore dall’Abruzzo, che si insinua come fra le righe. Qualcosa come una nota diversa in tanta morte, in tanta devastazione. Improvvisamente, qui e là, fra le parole gettate concitatamente nei microfoni dagli scampati, una nota che stona nella desolazione. È quando una madre racconta di come è stata salvata la sua bambina, da dei vicini sconosciuti che si sono arrampicati sui cornicioni per arrivare a quella stanza. La bambina è salva, dorme. La madre non si capacita: «Hanno dei figli anche loro, e hanno rischiato la vita per la mia. Angeli, sono, come devo chiamarli?». C’è qualcosa, in questa mole ferrigna di strazio che sommerge dai telegiornali, che ci stupisce. È la vecchia di 98 anni che sotto le rovine della sua casa ha aspettato i soccorsi quietamente, lavorando all’uncinetto, in quel ritmo antico delle dita che tramano e legano: simile allo svolgersi fra le dita di una corona di rosario. O il giocatore dell’Aquila Rugby, ventenne, un colosso, che in quell’alba di macerie s’è caricato in spalla una donna e poi suo marito - salvi, dalla loro casa crollata. E su quelle grandi spalle si è poi lasciato mettere da tanti altri, come un giogo accettato, malati in sedia a rotelle, e materassi, e fornelli – poveri resti per sopravvivere. Con quelle spalle da rugbista, con quelle mani come badili, instancabile – a scavare, per gente mai vista. È questo che ci stupisce dall’Aquila, molto più che le polemiche, e le accuse, e la consueta rabbia. Ci stupisce che in una simile esplosione di dolore e di male, gli uomini reagiscano. Come un pugile che ha incassato un formidabile colpo e, alle corde, si riscuote e torna a combattere. Che si raccolga così la sfida del dolore, introduce un fiato di meraviglia nell’abitudine stanca con cui spesso guardiamo a noi e agli altri. Cos’è che spinge degli uomini a rischiare la vita per uno sconosciuto, a svangare nel fango la notte intera, senza sentirsi stanchi? (Quegli stessi uomini che fino al giorno prima erano assolutamente come gli altri, magari cinici, o arrabbiati, o pigri tentatori della buona sorte al lotto). È, sembra, lo stesso dolore che sfida. E riapre dimenticati pozzi interiori, e nello schiaffo provoca: c’è una sorgente, lì sotto, che avevamo dimenticato di avere. Generosa, gratuita; come straniera, in un mondo che normalmente non dà niente per niente. Si chiama questa sorgente, parlando cristiano, speranza. Quella speranza che Charles Peguy definì «una irriducibile» . Quel non arrendersi, anche quando tutto sembra perduto. L’improvviso scoprire che il vicino di cui non sai il nome, vale tanto per te da sfidare la massa minacciosa dei muri spezzati e incombenti, per salvare la sua bambina. Come se quel vicino fosse un fratello. Come se davvero, alla radice, fossimo tutti fratelli. È un’altra Italia quella che s’è vista in tv e sui giornali in questi due giorni. Nella gente d’Abruzzo e nelle colonne di mezzi di soccorso che già all’alba di lunedì si mettevano in marcia da ogni parte d’Italia verso L’Aquila. Nei volontari e nelle offerte di case, di viveri, di pannolini. Nelle cento sottoscrizioni aperte, e indicate da tutte, tutte le tv e i giornali. In questo tempo di crisi. Dove fino a ieri l’Italia, cupa e depressa, sembrava chiusa nelle sue paure e partigiane rivendicazioni. La sfida del dolore, come un manrovescio, ha rivelato un Paese spesso ignoto agli italiani stessi. Una faccia generosa, che rischia, che non calcola. Un’Italia amante della vita. In questa settimana di Passione e di morte, ci ha stupito, ci ha lasciato muti la madre che raccontava di quegli 'angeli' che le han salvato la figlia; e il gigante dell’Aquila Rugby, accanito, ansante, quella notte, su tutta un’altra meta.