Siamo in Uzbekistan, ex Unione Sovietica, uno dei molti Paesi in cui decine di professionisti italiani scelgono di trascorrere le ferie operando gratuitamente i bambini cardiopatici condannati a morte certa, non dalla malattia ma dalla povertà. Perché se nel mondo nascono ogni anno un milione di bimbi affetti da gravi malformazioni cardiache, solo duecentomila hanno accesso alle cure, gli altri ottocentomila soccomberanno. Non i più gravi, i più sfortunati: venuti al mondo in una regione in cui la salute è un bene che si compra e la cura – dove c’è – un lusso per ricchi.
Lo ha raccontato bene sulle nostre pagine Vito Salinaro, partito per l’Uzbekistan al seguito dei medici italiani, e ora lo fa il videoreportage curato da lui e da Francesco Giase che è stato presentato l’altro giorno all’ospedale milanese di Niguarda dall’équipe di sanitari per narrare ciò che nella nostra società è inimmaginabile (si può vedere su www.avvenire.it). Marcel ha un cuore per metà non sviluppato: una patologia solitamente mortale, ma lui ha tenuto duro e ha arrancato fino ai cinque anni. Ora però ogni movimento gli costa tanta fatica, sorride appena, le labbra e le unghie blu. «Il suo male è stato diagnosticato tardi perché qui non esistono gli strumenti per fare gli esami...», racconta la mamma in uzbeko, per noi un groviglio di consonanti finché alla fine ci raggiunge un suono familiare, « doctòr Marianeschi... ». E qui finalmente sorride.
La traduzione spiega: «Lo hanno visitato in tanti da quando è nato, ma tutti ci hanno detto che non c’è niente da fare e Marcel è deperito. Poi un dipendente dell’ospedale ci ha parlato dell’arrivo di chirurghi bravi dal-l’estero, noi abbiamo tanta fede nel doctòr Marianeschi ». L’Italia vista da qui oggi ha il sapore della Terra promessa, un luogo da favola dove esistono gli ospedali, dove i farmaci si possono comprare nelle farmacie, dove se stai male vai dal medico e ti visita pure. Dove la cura è un diritto e la salute un bene collettivo.
Quei due genitori non sanno delle liste d’attesa che anche da noi affliggono e a volte condannano, non sanno dei pochi (ma inaccettabili) casi di malasanità, né di qualche medico disonesto che, a fronte di migliaia di colleghi esemplari, lucra sui pazienti. Vedono invece ciò che a volte noi non vediamo né apprezziamo più, la professionalità e ancor più la profonda umanità di chi trova normale, non eroico, attraversare il mondo per chinarsi su vite sconosciute.
A oggi i medici 'missionari' del Niguarda e degli Ospedali Riuniti di Bergamo, sorretti dalla Fondazione 'Aiutare i bambini', hanno operato 620 piccoli, «620 contro ottocentomila che attendono, potremmo sentirci scoraggiati. – dice il presidente della Fondazione, Goffredo Modena – Invece no: se ne avessimo potuti aiutare 621, quell’uno in più sarebbe una vita salvata. Il problema mondiale non lo scalfiamo nemmeno, ma quella vita è tutto l’universo ». In epoca di tagli («oggi l’annuncio che gli stanziamenti per la cooperazione sanitaria italiana calano da 1.200 milioni di euro a 200milioni») tutto questo è possibile grazie a un fiume inarrestabile di solidarietà, alla generosità di milioni di donatori, all’instancabile corrente positiva che contrasta tutti i santi giorni la marea nera del male e dell’ingiustizia.
Mentre nel ricco Occidente qualcuno reclama un 'diritto a morire' e la vita spesso è un vuoto a perdere (eutanasia, suicidio assistito, milioni di figli abortiti), nel mondo dei poveri le forze scendono in campo per regalare qualche anno in più a un bambino già minato. E le forze scese in campo sono nostre, parlano siciliano, pugliese, calabrese, campano, umbro, lombardo sono i medici formati dalle nostre università, dalle nostre famiglie e, anche, dalle nostre chiese. Il frutto della nostra cultura e mentalità, fioriti sulle radici cristiane di cui siamo il risultato. Sono la parte più bella di questa nostra Italia.