domenica 17 marzo 2013
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Abbiamo un vitale bisogno della virtù civile ed economica della bellezza. La bellezza ci è necessaria per il rilancio della nostra economia e del lavoro, per una rifondazione della scuola e dell’università, e per curare veramente le vecchie e nuove forme di povertà involontaria e non scelta, che per essere sanate hanno bisogno della bella povertà di Francesco. L’economia e la civiltà italiane non hanno solo 'generato' bellezza (artistica, musicale, urbana ...): prima è stata la bellezza a generare economia e civiltà. Il Made in Italy, di ieri e di oggi, lo hanno fatto artigiani lavoratori formati dalla bellezza, cresciuti in mezzo alle nostre cattedrali, piazze, valli, mari e montagne. Gli input delle nostre economie non sono stati soltanto le materie prime, il capitale e il lavoro: nelle filiere produttive sono entrati anche Dante, Pinocchio, Fellini, storie, paesaggi, affreschi, chiese. Bellezza che è diventata anche design, auto, scarpe, abiti, cibo. Quando andiamo in Umbria o in Sicilia per turismo eno-gastronomico, non 'consumiamo' soltanto alloggio, cibo e vino, stiamo 'mangiando e bevendo' anche bellezza, accumulata in millenni di cultura e di paesaggio (nel prezzo dei beni ci sono componenti che l’imprenditore vende, ma che non son suoi: le tasse sono anche questo). Siamo stati capaci di creare valore economico finché siamo stati capaci di generare valore aggiunto in bellezza, fin quando l’abbiamo saputa raccontare, e poi tradurla anche in prodotti, in beni, in economia, benessere. Oggi stiamo consumando bellezza, ma non siamo capaci di riprodurla, se non in quantità minima. Dobbiamo tornare a produrre bellezza, se vogliamo tornare a produrre beni e lavoro. Ma la bellezza non si pianifica nelle business school né nei tavoli politici: nasce, fiorisce, dalla gratuità, da quella charis / grazia che è radice anche di bellezza (grazioso), e quindi dall’amore dei luoghi, delle città, dei territori. La bellezza è poi essenziale, sebbene oggi meno evidente, per una buona scuola e buone università, che sperimentano carestie non solo di risorse economiche e finanziarie, ma anche di bellezza. Per la formazione del carattere dei bambini e dei giovani dovremmo usare i luoghi più belli della città, oggi catturati dalle banche e dalle rendite, mentre gli studenti sono confinati in edifici sempre meno curati, spesso in un vero stato di degrado. Non so come si possa insegnare, incontrare e conoscere Socrate, Pitagora e Leopardi in luoghi brutti. Chi lavora nelle scuole sa – se vede bene – che le aule, le pareti, i giardini parlano e insegnano, sono 'colleghi' parlanti linguaggi non verbali, ma vivi come i nostri. Questo lo sanno molto bene i bambini, perché lo hanno imparato dalle fiabe e dai cartoni, dove anche i grilli, gli animali e le piante parlano, e dove le case hanno occhi e sanno sorridere. Anche per questo motivo i bambini non sono adulti con qualcosa in meno, perché hanno anche qualcosa in più degli adulti, che si perde crescendo. Senza questa consapevolezza è impossibile una vera reciprocità bambino-adulto. Ma se pochi minuti dopo aver letto un testo di Ungaretti, cercando di far vivere e sperimentare qualcosa del mistero della poesia (la poesia o la si vive e sente nella carne, o è esercizio inutile, se non dannoso), gli alunni e gli studenti fanno ricreazione in luoghi sciatti e degradati, quell’esercizio di libertà e di verità si disperde. Così il giorno dopo l’insegnante-Sisifo, deve ripartire da zero, o quasi. Non c’è scuola buona che non sia anche bella. Ma se c’è un luogo dove il bisogno di bellezza è ancora più urgente, questo è il mondo delle povertà. Nelle società passate, i luoghi più belli della città erano le cattedrali e le chiese, abitati dal popolo, quindi anche dai poveri. È stupefacente pensare che gli affreschi di Giotto e di Caravaggio adornavano anche, e soprattutto, i luoghi dei poveri, quelli della gente semplice, umile, analfabeta: il giogo duro delle loro vite brevi e piene di stenti era reso più leggero anche dal dono dell’arte di artisti e di mecenati, che con la bellezza restituivano e condividevano parte della loro ricchezza. Certo, in quelle società c’erano ancora molto lusso e molta ricchezza privata non condivisa con tutti né tantomeno con i poveri. Ma oggi, nonostante rivoluzione francese e democrazia, la ricchezza condivisa sotto forma di bellezza è ancora minore, perché la ricchezza che nasce dalla finanza finisce nei paradisi fiscali, o in residenze e beni di consumo privatissimi e invisibili. Le ville dei super-ricchi non abbelliscono alcuna città, perché la gente non le vede più, tantomeno le 'abita': sono ricchezze incivili, perché non sono nelle e per le città. Così quei lussi e quegli sfarzi non sono più autenticamente bellezza, e neanche per chi li possiede, perché la bellezza per essere tale ha bisogno dello sguardo dell’altro, e dello sguardo del povero. «Sposata hai una pena di non provar gioia alcuna che non sia di tutti»: c’è qualcosa di universale in questo bel verso di Davide Maria Turoldo. «Nella mia cooperativa – mi raccontava un imprenditore civile – voglio avere ottimi parrucchieri, perché – aggiungeva – se una signora anziana che si è fratturata un femore non si risente bella, non guarisce, e può lasciarsi morire». La bellezza vera è terapeutica: si può morire, o non guarire, anche per la bruttezza dei luoghi. Accogliere e aiutare persone povere in luoghi belli dà loro quella forza in più per fare il primo passo per riprendere il cammino, perché la bellezza risveglia la nostra parte migliore. Questa bellezza non è un bene di lusso, è un bene di prima necessità, che coabita con la sobrietà e la povertà. Riportiamo allora la bellezza nelle città, nelle imprese, nelle scuole, altrimenti ci mancherà la forza spirituale e simbolica per ricominciare. ​​​​
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