Chi vive nella società contemporanea è stabilmente esposto – meglio, immerso – a un flusso continuo e sovrabbondante di stimoli: immagini, suoni, eventi che si rincorrono in uno spazio comunicativo sempre più caotico. Tutto ciò ci consente, certo, di essere informati su quanto accade nel tempo.
Ma espone anche a una altalena continua di emozioni. Volenti o nolenti, siamo emotivamente colpiti da quello che vediamo e sentiamo. Anche se tale effetto si produce in una modalità particolare, che è quella dello spettatore, il quale assiste a una scena senza essere direttamente coinvolto e senza avere la possibilità di intervenire in prima persona. Le emozioni che proviamo, filtrate dallo schermo, sono diverse da quelle che sperimentiamo quando siamo direttamente a contatto con la realtà.
Tutto ciò ha a che fare con i sistematici errori di valutazione circa quanto accade attorno a noi. Le ricerche confermano che le valutazioni dell’opinione pubblica sulla reale portata dei problemi sono molto approssimative. In molti casi addirittura nettamente sbagliate. Uno degli esempi più clamorosi è la percezione della presenza di stranieri: gli intervistati arrivano a dare stime che sono fino a 10 volte maggiori rispetto ai numeri effettivi. Influenzate da correnti emotive che hanno ben poco di razionale, le opinioni pubbliche contemporanee sono volubili e disorientate. E perciò manipolabili. Le balene spiaggiate che si perdono a causa dell’inquinamento dell’ambiente marino sono una efficace metafora della nostra condizione.
In un’epoca caratterizzata da una sequenza impressionante di grandi choc globali (dalla pandemia al riscaldamento globale, dagli attacchi terroristici alle atrocità delle guerra in Ucraina e ora in Medio Oriente) le conseguenze di questa sovraesposizione non possono che essere rilevanti. Di sicuro vi è la progressiva metamorfosi di quella fiducia – e persino euforia – che aveva caratterizzato i primi anni seguiti alla caduta del Muro di Berlino.
Oggi a prevalere sono paura, ansia, risentimento. Difficile avere uno sguardo ottimistico, quando tutto quello che accade sembra dire di un mondo in via di disgregazione. Buona parte della opinione pubblica – soprattutto i ceti meno abbienti – è pervasa da emozioni negative. Facile terreno di conquista per gli “imprenditori della paura”. In un quadro già deteriorato, si innesta ora la perdita di empatia che si registra a seguito della continua esposizione “a distanza” a scene di guerra, distruzione, sofferenza umana: sappiamo tutto, avvertiamo la scossa emotiva delle notizie che sentiamo, ma non c’è nulla che ci tocca veramente. Per parafrasare il titolo del famoso libro di Primo Levi, siamo “sommersi (dall’informazione) e distaccati”. Il problema è che l’empatia è quel “sentire” che sollecita una risposta di fronte al bisogno dell’altro.
E in questo modo, come ha insegnato Zygmunt Bauman, essa rigenera il legame sociale. È il senso di pietà che ci fa dire “basta” davanti a una violenza inaccettabile. Ma quando a prevalere sono il distacco e l’indifferenza, a venire meno è l’ancoraggio che protegge la vita sociale dalla disgregazione e quindi dalla violenza verso sé stessa e verso gli altri. Di fronte a quanto sta accadendo, più che l’equidistanza, ci vorrebbe l’equivicinanza: la bussola che può guidare verso la soluzione dei conflitti in corso non sono i disegni di potenza pervicacemente perseguiti dai vari leader politici – che giustificano con i loro discorsi qualunque massacro –, ma la capacità, tipica dell’intelligenza umana, di mettersi nei panni degli altri. Contrastare questo effetto è complicato.
Ma almeno si può cercare di intervenire su due fronti. Il primo è la cura dei processi di comunicazione. Per ragioni che ben sappiamo, a partire dagli anni Ottanta deregulation e liberalizzazioni hanno trasformato il panorama mediale. Non si può certo tornare alla censura. Ma il problema rimane: l’inquinamento comunicativo non è meno dannoso di quello atmosferico. Non bisogna mai stancarsi di ripeterlo: diffondere immagini, dare resoconti, rappresentare la realtà comporta responsabilità. Oltre alla correttezza informativa, anche l’impatto emotivo va preso in considerazione.
Il secondo riguarda la vita quotidiana. Abbiamo bisogno di ricreare occasioni concrete di esercizio dell’empatia che, esattamente come le nostre capacità fisiche, va continuamente praticata. A cominciare dalla scuola (che non è un fabbrica né tantomeno una agenzia di selezione), dai luoghi di lavoro (creando contesti in cui la dimensione umana non sia censurata) e dai contesti della partecipazione civile e sociale (dove si sperimenta il contatto diretto con chi ci sta intorno). Nel mondo digitale, infine, la concretezza è l’antidoto più efficace per contrastare le tendenze disgregative e la crescita dell’indifferenza.