giovedì 29 gennaio 2009
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L’arrivo dell’inviato di Barack Obama George Mitchell al Cairo è stato salutato da un’imboscata a una pattuglia israeliana lungo il confine di Gaza, provocando la scontata reazione di Tel Aviv e la ripresa dei bombardamenti sulla Striscia dopo una tregua fragilissima durata appena dieci giorni. Segnale più eloquente della strategia scelta da Hamas non vi potrebbe essere. L’uso delle armi garantisce al movimento radicale di matrice islamica che da un anno e mezzo impazza a Gaza la certezza di essere escluso da qualunque colloquio di pace e contemporaneamente gli offre una sorta di extraterritorialità politica, dove predominano gli slogan che ad Hamas sono cari: nessun riconoscimento di Israele, nessuna apertura di credito all’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen, nessun negoziato per un cessate il fuoco duraturo. Imprigionata nella corazza del proprio radicalismo, Hamas rimane consapevolmente fuori da ogni possibile Road map (percorso di pace), l’unica ragion d’essere restando la propria sopravvivenza. Esattamente come certi movimenti rivoluzionari del Novecento – dai tupamaros a Sendero luminoso, all’esercito dei Simbionesi – per i quali conta più la lotta che la vittoria, la guerra infinita più che una pace durevole. E dire che Hamas – sulla carta, per lo meno – aveva avuto a portata di mano una grande occasione. Il 4 gennaio del 2006 il premier israeliano Sharon era stato colpito dal secondo ictus che lo avrebbe messo fuori gioco per sempre. Da dieci anni i palestinesi non votavano e il presidente Abu Mazen, presagendo la sconfitta, cercava di rimandare le elezioni: sapeva di avere come avversario interno un movimento confessionale, armato e contrario alla pace con Israele, ma che nella campagna elettorale aveva usato toni concilianti e puntato più sulla solidarietà, sulla condanna della corruzione di Fatah e su un futuro di dialogo con il mondo arabo e anche con quello occidentale. Quando il 25 gennaio 2006 il milione e ottocentomila palestinesi dei Territori si recò alle urne, il responso per Hamas fu trionfale e quello per il partito di Abu Mazen altrettanto rovinoso: Hamas aveva vinto dovunque, da Gaza alla Cisgiordania, da Hebron a Nablus, a Jenin, a Betlemme. A capo del governo palestinese sedeva per la prima volta un leader di Hamas, Ismail Haniyeh. In molti – da Condoleezza Rice all’Unione europea fino ai moderati egiziani e giordani – covarono l’illusione che il cambio della guardia al vertice del debole potere palestinese potesse imboccare la strada del dialogo. Ma Hamas – un arcipelago di contraddizioni, umori e correnti pesantemente condizionato sul piano finanziario da Teheran e da Damasco – si mostrò inadeguato alla sfida, agevolato in ciò dall’intransigenza bellicistica israeliana. Da partito politico vittorioso, Hamas tornò ad essere – o più propriamente rimase – un movimento radicale anti-sistema, per il quale la politica si fa soltanto con la forza delle armi. Un anno dopo estromise con il sangue da Gaza quello che rimaneva di Fatah. Sei mesi più tardi, ma questa è cronaca di oggi, ha rotto la tregua con Israele dando il via alla sanguinosa guerra dei 22 giorni. Tutto ciò nell’altisonante assenza della politica, non solo di Hamas, ma anche della classe dirigenze di Israele, a sua volta ipnotizzata dalla casta militare e dalle imminenti elezioni. Per la pace invece occorrono leader nuovi, con visioni e fantasia che finora non si sono viste, come ha auspicato anche il Papa. Altrimenti sarà solo guerra, eterna guerra.
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