Si dice che a indurre Silvio Berlusconi a rallentare il percorso che porterebbe – Quirinale permettendo – alle elezioni anticipate “punitive” nei confronti del nutrito drappello di parlamentari che ha seguito Gianfranco Fini sia stato l’esame delle prospettive elettorali del suo partito, che rischierebbe di perdere il primato al Nord, nei confronti dell’alleato leghista, e rischierebbe di non ottenere la maggioranza in Senato a causa dell’indebolimento nelle regioni meridionali (proprio quelle conquistate di slancio alle amministrative di pochi mesi fa) e del più ampio bottino elettorale di quel “terzo polo” che due anni fa era proposto dalla sola Udc di Pier Ferdinando Casin e che ora potrebbe contare su altri contributi (finiani del Fli, rutelliani dell’Api, autonomisti del Mpa). Le previsioni elettorali – specialmente se condotte quando non si sa neppure se e quando si voterà e con quali blocchi di alleanze – sono un genere letterario affine alla fantascienza. Tuttavia, se anche lo stimolo fosse così debole, sarebbe salutare una seria riflessione sulle trasformazioni dell’assetto geopolitico del Paese, sui problemi che testimonia e sui rimedi che ci si può proporre di adottare.È abbastanza evidente che una rottura totale con Fini e un mancato recupero dell’antica (e due anni fa bruscamente disprezzata) alleanza con Casini, due leader emiliani ma che guidano forze il cui retaggio elettorale è in misura ragguardevole centromeridionale, unita alla crescita oggettiva del peso della Lega Nord, sia in termini assoluti che relativi visto l’indebolimento del Popolo della libertà, porterebbe a presentare un’immagine squilibrata di un centrodestra che corresse alle urne. Se di questo difficilmente potrebbe trarre vantaggio il Partito democratico (reduce da cocenti sconfitte in Lazio, Campania e Calabria), le prospettive per un’aggregazione centrista appaiono potenzialmente migliori. Il che, grazie all’effetto di una legge elettorale piuttosto bizzarra, potrebbe determinare per un Pdl–Lega vincente alla Camera una empasse al Senato persino più grave a quella patita dal secondo governo Prodi. La scelta del governo di indicare tra le quattro priorità da affrontare e su cui chiedere il consenso parlamentare in autunno il Mezzogiorno (scelta tutt’altro che scontata in un esecutivo considerato da molti a trazione nordista) sarà un interessante banco di prova proprio per le ragioni appena indicate. Alle critiche che si sono incentrate sull’incapacità delle istituzioni e delle classi dirigenti meridionali nell’impiego produttivo dei fondi europei o nell’ampliamento della spesa sanitaria in contrasto con la qualità dei servizi prestati, bisognerà ora accompagnare un progetto di rinascita, senza il quale il Sud non riuscirà ad agganciare la ripresa, come invece pare stia iniziando a fare il settore manifatturiero, collocato prevalentemente al Nord. Per ora la politica del centrodestra verso il Mezzogiorno ha puntato sullo smantellamento delle reti della criminalità organizzata, sull’annuncio di grandi opere (considerate da alcuni pleonastiche e speciose, a cominciare dal ponte sullo stretto di Messina) e sulla creazione di un sistema creditizio specificamente orientato al sostegno dello sviluppo meridionale. Si può pensare quel che si vuole di queste iniziative e della loro efficacia, ma è evidente che mancano di un grado sufficiente di organicità per integrare un effettivo progetto complessivo di rinascita. In ogni caso è un dato positivo che il tema recentemente riproposto con forza anche da uno specifico ed esigente documento della Chiesa italiana sia tornato al centro dell’attenzione politica, specialmente se stimolerà dopo anni di “distrazione” un confronto aperto, che superi gli steccati di un’autosufficienza, peraltro assai dubbia, della “vecchia” maggioranza. Che lo start venga da considerazioni elettoralistiche o meno, che peraltro sono naturali nelle competizione politica, quel che conta saranno i risultati. Se e quando diventeranno scelte concrete, ovviamente.