Il popolo della Sindone è una ragazzina con le scarpe rosa slacciate e gli occhi timidi. Manda sms dalla penombra del Duomo e sa che non dovrebbe perché si guarda intorno in attesa di un rimprovero. Che non arriva. Però quando è davanti all’Uomo dei dolori, spegne il cellulare e si immerge in se stessa come se nel sacro telo intriso di sofferenza vedesse le ferite aperte e i sogni acerbi della sua adolescenza.Il popolo della Sindone è un uomo ricurvo sulla carrozzina spinta da una suora. «Scusate, grazie», dice una volontaria e noi ci spostiamo un po’ a destra per farlo passare. Ho provato a seguirlo con lo sguardo ma lui era già lontano perché qui, in piccolo, vale la scuola del Vangelo: gli ultimi, i dimenticati hanno la precedenza.Il popolo della Sindone è un gruppo di sacerdoti francesi con la scritta Lourdes sulla borsa a tracolla. I più anziani hanno dei seggiolini da picnic e quando l’attesa diventa lunga si siedono facendosi aria con un giornale mentre recitano il Rosario.Il popolo della Sindone sei tu, noi, ciascuno degli oltre due milioni di pellegrini che si sono messi in coda nei giorni dell’Ostensione che finisce oggi. E anche chi voleva andare a Torino e non ha potuto, trasformando il desiderio di esserci, in preghiera. Perché la Sindone è innanzitutto un invito alla riflessione, un interrogativo che scuote il nostro fragile castello di certezze. Chi ha il dono della fede davanti al sacro lino prega, medita, contempla. Lo sguardo va alla ricerca di quel Volto spento dalla morte ma illuminato d’eternità. Davanti agli occhi scorrono i visi cari che non ci sono più, chi accompagna da vicino le nostre vite ma anche le persone «ingombranti», quelle che fatichiamo a sopportare. In quei pochi attimi di sosta più che di risposte senti il bisogno di silenzio, che è mettersi in ascolto, tentare di aprire il cuore all’Assoluto, consegnare le chiavi della nostra esistenza a chi sa dividere l’essenziale dal superfluo. Allo specchio del Vangelo riesci a capire cosa davvero conta, ti sembra persino logica la follia d’amore di un Dio che vive nel nascondimento per manifestarsi in tutta la sua grandezza, che sceglie di affrontare la morte per guidarci alla vita vera.«L’immagine impressa sulla Sindone è quella di un morto, ma il sangue parla della sua vita», ha detto Benedetto XVI lo scorso 2 maggio. E ancora: nel sacro lino «ogni traccia di sangue parla di amore e di vita». Com’è vero. Ma c’è bisogno di silenzio per scoprirlo. E di preghiera. E di coraggio. Il bagaglio che ha accompagnato un popolo intero a Torino, dall’Italia come dall’Asia, per fermarsi pochi minuti davanti a un telo segnato dal dolore. O forse il segreto è proprio questo: trovare nella sofferenza più inconcepibile e disumana una scuola di speranza. Quella che guida la ragazzina attraverso la città con le cuffiette dell’iPod alle orecchie, il disabile e la sua fatica di farsi largo sul marciapiede pieno di gente, il sacerdote che prega mentre aspetta i penitenti nel confessionale. Persone come tutte le altre, impegnate ogni giorno a costruire con buona volontà la città degli uomini.Però a ben vedere una differenza c’è: nel silenzio di una chiesa o di notte prima di dormire, spesso quegli uomini e quelle donne trovano l’umiltà e la forza di mettersi in ginocchio. E di ringraziare.