La centralità del consumo non è un fatto inedito né tipico della nostra società. Ciò che è invece nuovo e rilevante è la nostra incapacità di cogliere la pervasività della cultura del consumo e delle rendite, che purtroppo ha caratterizzato, accomunandole, molte civiltà decadute. Il fenomeno del consumo ha radici molto antiche, e in generale è cosa buona, perché quando sono negati i beni per il consumo sono negati anche i diritti e le libertà.
L’homo sapiens non solo ha dovuto consumare per sopravvivere, ma ha sempre parlato con le parole e con i beni, dalle perle donate ai popoli venuti dal mare, fino al panettone che abbiamo trovato la mattina di Natale sul tappetino di casa per avere appeso la notte prima un biglietto di auguri sulla porta dei nuovi vicini: quelle due 'cose' ’hanno parlato prima delle nostre (timide) parole. Le civiltà precedenti la nostra avevano però imparato, spesso a caro prezzo, che il consumo delle cose va educato, orientato, e anche limitato.
Nella cultura medioevale questa verità era centralissima. Basta pensare alla sostanza delle 'leggi suntuarie' nelle città medioevali, cioè quelle normative che limitavano i consumi dei beni di lusso – dalla lunghezza degli strascichi dei vestiti (che arrivavano a diversi metri) all’altezza di torri e campanili. Normalmente oggi si leggono queste antiche leggi da una prospettiva puramente moralistica. In realtà c’era un messaggio da raccogliere ancora oggi, che parte dalla constatazione, empirica e non ideologica, dei danni individuali e collettivi che producono consumi intemperati, illimitati, sfrenati, soprattutto di quei beni che oggi gli economisti chiamano 'beni posizionali'. Ci sono, infatti, dei beni di consumo che non vengono acquistati per l’uso tipico del bene, ma per gareggiare e confrontarci con gli altri, o per 'posizionarci' nelle gerarchie sociali. Ieri erano i vestiti, le case e le carrozze che venivano usati per gareggiare e rivaleggiare con i 'concorrenti' della città. Oggi questi 'beni posizionali' sono aumentati a dismisura, e non sono soltanto le auto e le barche di lusso, ma anche smartphone e molti altri beni che consumiamo anche per competere e confrontarci con gli altri.
È qui che occorre aprire un discorso sui consumi dei nuovi beni tecnologici che accendono le nostre fantasie, che associamo a immagini del sé post-moderne e 'smart', e che ci mettono in fila per ore di fronte ai negozi quando vengono lanciati nuovi modelli. Guardando questi nuovi consumi un po’ in profondità, potremmo scoprire cose di cui non si parla, forse, abbastanza. Innanzitutto prenderemmo coscienza che questi nuovi beni di consumo sono il frutto di una potentissima industria che muove capitali immensi, che mentre è postmoderna per tipologia di beni è molto tradizionale in tema di elusione fiscale. L’enorme investimento pubblicitario potenzia questi consumi e li pone al centro del sistema capitalistico, che cresce alimentandoli.
Gli effetti collaterali di questa grande 'macchina posizionale' sono molti. Il primo è l’immiserimento delle classi più fragili che sperperano in consumi posizionali i loro sempre minori redditi. È impressionante la crescita dell’usura tra i poveri per acquistare questi nuovi 'beni' di consumo che finiscono per rubare il pane ai loro e ai nostri figli. Un secondo effetto ha a che fare con lo spiazzamento di risorse che l’enorme investimento per migliorare efficienza e comfort di telefonini e tablet produce nei confronti di quei settori 'non posizionali' o comuni (per esempio, l’arte) o dove non c’è sufficiente ritorno economico, ma che sono fondamentali per la qualità morale della nostra società (per esempio, la lotta alle malattie rare). Un terzo effetto chiama direttamente in causa il nostro benessere.
Molti studi, tra i quali quelli del premio Nobel Daniel Kahneman, ci mostrano ormai da oltre un decennio che il denaro e le energie spese per consumi posizionali procurano un aumento di piacere che dura finché dura l’esperienza della novità, cioè pochi giorni (telefonini) o pochi mesi (auto e case). Dovremmo, infatti, essere coscienti che molte delle innovazioni nei settori delle nuove tecnologie hanno come principale scopo quello di aumentare la dimensione 'comfort' di questi beni, e ne riducono la dimensione di 'creatività' (pur presente).
Per quanto simpatiche e anche molto comode, le app e i tablet riducono il nostro impegno nel processo che va dalla produzione al consumo di beni e servizi, e riducono creatività e felicità – cominciamo a vederlo anche nei bambini. Non sempre, ma spesso. «Uso lo stradario e non il navigatore per non perdere abilità», mi confidò un giorno un tassista romano. In altre parole, la rivoluzione tecnologica di ultima generazione sta, almeno in questa fase, aumentando la nostra tendenza a essere consumatori, non produttori e lavoratori. Discorso diverso quando le nuove tecnologie, app e tablet aumentano la nostra creatività produttiva e l’uso dei beni comuni. Non si tratta di mettere in dubbio l’importanza di questi nuovi beni, ma solo di usare il pensiero critico e prendere atto che quelle grandi multinazionali usano le innovazioni tecnologiche non per aumentare la creatività e l’autonomia dei cittadini, ma per creare sempre più comfort e consumatori che sostituiscono velocemente quei beni che devono invecchiare ancor più velocemente.
Dobbiamo, perciò, fare di tutto affinché la rivoluzione delle nuove tecnologie non ci tenga dentro casa 'intrattenuti' e comodi. La qualità delle democrazie dipenderà molto dalla nostra capacità di non appaltare le nuove tecnologie al solo capitalismo for-profit, ma di considerarle come nuovi diritti di cittadinanza, accessibili a tutti, soprattutto ai più poveri, e regolarne l’uso e la gestione come accade oggi per i beni di utilità pubblica. E di potenziare la dimensione di dono e di gratuità sempre presente anche in questi nuovi beni di consumo, contrastando la forte tendenza a privatizzare e mercantizzare i nuovi beni tecnologici (l’uso gratuito di reti wifi nelle nostre città, stazioni e aeroporti è in preoccupante calo).
La storia (dall’impero romano al tardo Rinascimento) ci dice che le società progrediscono quando le persone orientano la loro natura competitiva e agonistica nella produzione e nel lavoro; degradano e precipitano in 'trappole di povertà' quando competono principalmente con il consumo e per le rendite che lo rendono possibile senza lavoro. Quando – ieri e oggi – per dire chi siamo ed essere stimati lavoriamo meglio e di più, la dinamica sociale produce benessere per tutti; quando invece acquistiamo la nuova auto di lusso o il nuovo modello di tablet per ottenere l’apprezzamento (o l’invidia?) degli altri, le nostre relazioni diventano sterili, cadiamo in dilemmi sociali, alla lunga ci incanagliamo, e soprattutto investiamo le nostre risorse in modi e luoghi improduttivi. Anche perché la logica posizionale nega la natura vera e civile del mercato, che non è una gara sportiva ma mutuo vantaggio (Adam Smith), mutua assistenza (Antonio Genovesi).
Infine, nei Paesi latini, dove ancora è ben viva l’arcaica 'cultura della vergogna' e della 'bella figura', cadiamo più facilmente in queste trappole posizionali. Come ci ha mostrato per primo Amintore Fanfani (che fu storico economico notevole), nelle società di matrice cattolica e comunitaria le persone tendono a competere consumando, mentre in quelle nordiche, protestanti e individualiste, competono soprattutto producendo e lavorando. L’attuale capitalismo ha fuso insieme, con un colpo di genio (ancora tutto da esplorare), il 'meglio' di questi due umanesimi, dando vita a una cultura del consumo individualista e posizionale, che ci sta impoverendo e intristendo. «La felicità – mi ha sussurrato la vigilia di Natale, con un filo di fiato, il mio vecchio maestro Giacomo Becattini – non sta nel consumare molti beni. La felicità sta nel possedere gioiosamente alcuni beni, avendoli prodotti gioiosamente».
l.bruni@lumsa.it