Giusto e salutare, in questi tempi difficili, reagire alle preoccupazioni. Combattere si deve sempre, resta però da vedere come, ed ecco quella brava mamma della tivù fornirci il "reagente" naturale della comicità. Così se Sky s’infila nella manica l’asso Fiorello, la tivù generalista non dà requie. Tanto da far trainare, come sappiamo, trasmissioni impegnate quali
Ballarò dalle acutezze di Maurizio Crozza mentre programmi che affrontano questioni di fondo come
Annozero si affidano al curaro di Sabina Guzzanti e non rinunciano a chiudersi con le vignette di Vauro. Comicità e umorismo sono, d’altra parte, necessarie categorie della realtà. Non vi si sarebbero dedicati, altrimenti, un filosofo come Henri Bergson («Il riso», 1900) e Luigi Pirandello con un saggio del 1908 dove si traccia la distinzione tra comico, "avvertimento del contrario", e umorismo, "sentimento del contrario". Così, se una signora anziana ha in testa un cappello ridicolo, pure se dentro di sé porta un dramma, una delusione inesorabile, un tormento senza pace, noi ne ridiamo perché incapaci di resistere al "contrario" che in quel cappello la rappresenta. Con tutte le tragedie che lo hanno passato da parte a parte, il Novecento non solo non si è negato il riso, ma lo ha elevato a bisogno naturale dell’animo umano. Questo grazie anche a interpreti di prima grandezza, a cominciare da Ettore Petrolini (1884-1936), il grande attore e autore romano, cantore di Gastone, sulfureo osservatore di tempi per un verso abbuiati dal fascismo ma per l’altro, proprio perciò, esposti alla satira come pochi altri. Poi, sulla pagina scritta, Giovanni Mosca, il grande Giovannino Guareschi cui non si sarà mai abbastanza riconoscenti per averci dato Peppone e don Camillo e, ancora, Achille Campanile, scrittore, giornalista, commediografo, ma soprattutto impareggiabile umorista («Dove vai?». «All’Arcivescovado. E tu?» «All’Arcivescovengo»). Quindi Marcello Marchesi e, sulle tavole del palcoscenico del dopoguerra, Carlo Dapporto, Macario, Tino Scotti tra gli altri. Senza naturalmente dimenticare l’insuperato Totò. È stato un secolo di tragedie il Novecento che però, in virtù anche dello sviluppo della stampa, grazie al teatro, al cinema, alla prima televisione (la migliore), ha cercato la luce del ridere. Mentre questi anni Zero del nuovo secolo continuano a inseguire la risata fine a se stessa. Divertirsi, sghignazzare e farlo a prescindere, maestra ancora quella tivù dove si passa dal pianto al riso con un cinismo mai disinnescato. La ricerca del comico, "avvertimento del contrario", è oggi ininterrotta e, per ciò stesso, deprimente. Un continuo invito a dire: ma cosa c’è da ridere? Ben diverso quel "sentimento del contrario" che è l’umorismo. A proposito del quale il raffinato storico che è stato Carlo M. Cipolla, nell’introduzione a un suo divertissement, «Allegri ma non troppo» (Il Mulino, 2008) ci ha raccontato di un gentiluomo francese che, salendo il patibolo, incespicò in un gradino e, rivolto alle guardie, esclamò: «Dicono che inciampare porti sfortuna». Battuta che, secondo Cipolla, avrebbe dovuto evitargli la mannaia. Ma nessuno sul palco possedendo il dono dell’umorismo, la testa del gentiluomo dovette rinunciare al proprio corpo.