La nostra missione in Afghanistan è di pace, nel senso che vuole portare stabilità, sviluppo, e appunto pace in quel ribollente e straziato Paese, ma il contesto, l’aria che si respira laggiù sono quelli della guerra, ed è stato ieri vittima della guerra intorno a lui il caporal maggiore Alessandro Di Lisio, dodicesimo caduto italiano in un’impresa che si rivela giorno a giorno più difficile. Difficile anche da quando il comandante in capo della forza di peacekeeping è il loquace presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che dopo la recente escalation militare ha annunciato adesso di cercare « una strategia d’uscita efficace » . Alla notizia della nostra tragedia di ieri i sentimenti dominanti sono stati ( e restano) quelli dello sgomento, del dolore da condividere nella preghiera con i familiari del caduto, e di ammirazione per il suo sacrificio. Di gratitudine, anche, gratitudine che va estesa a quanti, specialmente nostri connazionali, da anni si stanno spendendo per consolidare il legittimo sistema istituzionale e la sicurezza regionale, pure con l’addestramento dell’esercito e della polizia afgani. A questo va aggiunta l’azione più importante, soprattutto in prospettiva, ossia la cooperazione allo sviluppo socio- economico locale. Tuttavia questa opera meritoria è messa a dura prova, e addirittura a rischio d’essere vanificata, dall’andamento del conflitto, che continua ad essere sconfortante nonostante l’accresciuto impegno politico- militare statunitense, soprattutto al Sud e lungo la ' frontiera- non frontiera' con il Pakistan. Durante i primi dieci giorni di luglio nella massiccia operazione per il controllo della provincia di Helmand sono rimasti uccisi 15 soldati britannici, l’altro giorno è caduto vittima di un attentato il capo della polizia del distretto di Jairez ( a sud di Kabul), che era definito un modello di sicurezza dagli statunitensi. I ribelli taleban, anche dopo alcuni rovesci ( come quelli subìti nella valle pachistana di Swat), dimostrano una impressionante capacità di ripresa e di infiltrazione, dovuta a una combattività sul filo del fanatismo e agevolata dalla condiscendenza crescente, si teme, di una popolazione che in gran parte percepisce le truppe straniere come occupanti, attrici di una strategia sempre più aggressiva che, oggettivamente, a colpi di raid aerei, ha fatto negli ultimi tempi troppe vittime civili, provocando l’ira giustificata di molti gruppi tribali. In ogni caso, a quasi tutti gli afgani quelle truppe appaiono schierate a sostegno del governo centrale di Hamid Karzai. Ossia l’uomo che nemmeno Washington ama più, che è diventato un simbolo di corruzione e di impotenza, ma che fra un mese sarà il probabile vincitore di elezioni presidenziali garantite anche da un aumento del contingente militare alleato ( italiani compresi). La partita afghana rimane dunque drammaticamente aperta, e a rischio di peggioramento. Vincerla è, speriamo, ancora possibile, ma a patto di conquistare la mente e il cuore degli afgani, evitando i cosiddetti ' danni collaterali', impegnandosi maggiormente nell’aiuto allo sviluppo socio- economico del Paese, un aiuto mirato anche, come inutilmente si predica da tempo, a ridurre la produzione e il commercio illegale dell’oppio, del quale si avvantaggiano i taleban ( e non soltanto i taleban). Quanto ai nostri soldati, è doveroso garantire loro il massimo della sicurezza rivedendo, se necessario, le regole d’ingaggio e rafforzandone l’equipaggiamento, a cominciare da quei veicoli che, come s’è visto ieri, non sono tutti ' a prova di bomba'.