giovedì 13 marzo 2014
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È certo segno di talento intellettuale se durante un potente mal di denti ci si interroga lucidamente sulla natura del dolore e sul modo in cui possiamo sentirlo. Un’infiammazione alla polpa genera attività elettrica che si propaga dal nervo trigemino fino al tronco encefalico. Di qui i treni di impulsi elettrochimici raggiungono la neocorteccia mediante l’attivazione progressiva di moltissimi neuroni fino a che (ma è una frazione di secondo) si attivano quelli di alcune zone specifiche. A quel punto si ha la spiacevole esperienza del dolore. «Il problema – scrive il nostro autore non più sofferente – sta nel divario apparentemente incolmabile tra il sistema nervoso e la sua visione interiore, le sensazioni che esso genera», l’insieme della nostra vita mentale e spirituale. Un problema che ha travagliato da secoli filosofi e scienziati, quello della coscienza, cui Christof Koch ha dedicato la sua (giovane e intensa) esistenza di studioso, tanto da sentire il bisogno di fare un punto non solo scientifico ma anche autobiografico. Una percorso, quello di Koch (Una coscienza. Confessioni di uno scienziato romantico; Codice Edizioni, pagine 248, euro 21,00), che riepiloga una lunga e entusiasmante ricerca dei correlati cerebrali della coscienza qualitativa, ma anche del “senso del mondo e della vita”, partendo da una robusta fede cattolica appresa dalla sua famiglia tedesca e affievolitasi nel clima razionalistico della California dei laboratori più avanzati. Ma l’eredità di quel desiderio per una spiegazione che vada oltre i dati neurobiologici sta nei richiami alle teorie di Teilhard de Chardin e nella convergenza verso la teoria dell’informazione integrata, declinata in termini panpsichistici. Un’antica tradizione riaffiora qui, secondo cui ogni elemento del mondo, da quelli inanimati fino a quelli viventi più complessi, gode di gradi crescenti della proprietà emergente che chiamiamo coscienza. Un’apertura che gli ha attirato qualche critica dall’ortodossia scientifica, ma che non deve oscurare il valore di una teoria cui studiosi italiani stanno dando un contributo fondamentale. In particolare, Giulio Tononi, oggi all’Università del Wisconsin, è colui che l’ha formulata, mentre Marcello Massimini, dell’università di Milano, la sta testando con risultati sempre più promettenti. La tesi fondamentale, enunciata nel loro volume introduttivo, tanto chiaro quanto appassionante (Nulla di più grande; Baldini e Castoldi, pagine 208, euro 18,90) è che «un sistema fisico è cosciente nella misura in cui è in grado di integrare informazione». In sintesi, ciò significa che, da una parte, l’esperienza che ciascuno di noi sperimenta differisce in modo specifico da un enorme numero di altre esperienze possibili, di modo che deve essere disponibile al substrato della coscienza un repertorio potenziale altrettanto grande di stati diversi. Inoltre, dato che ogni stato di coscienza è per noi un’esperienza unitaria, anche il substrato deve essere una singola unità integrata. Ne consegue che un sistema fisico è cosciente nella misura in cui è in grado di integrare informazione. La geniale traduzione pratica di questo apparato teorico è data dalla perturbazione magnetica localizzata del cervello in alcuni suoi vari stati (sonno, veglia, coma) per vederne la risposta in termini di elettroencefalogramma. Il risultato è riassunto in una misura (phi) simile analogicamente alla zippatura di un file elettronico: più integrazione, più coscienza; nessuna integrazione uguale coma profondo. Una via sperimentale del tutto innovativa alla misurazione quantitativa della coscienza che promette molto nella diagnosi e nella cura dei soggetti in stato vegetativo, ma anche in termini di comprensione generale del fenomeno. Tra l’altro, la teoria dell’informazione integrata resta per ora filosoficamente compatibile con posizioni diverse dal materialismo riduzionistico. E dal cerebralismo, che riporta tutta la nostra vita mentale al funzionamento del cervello, si distacca una prospettiva recente detta della “mente estesa”. Ne dà una ricognizione precisa e accessibile un volume di Michele Di Francesco (rettore dello Iuss di Pavia) e Grazia Piredda (La mente estesa, Mondadori Università, pagine 278, euro 21,00), che inaugura la preziosa collana “Forma mentis” curata dallo stesso Di Francesco e dedicata alla “silenziosa” rivoluzione della scienza cognitiva. Nelle parole dei suoi ideatori, i filosofi Clark e Chalmers, se per svolgere un processo cognitivo, utilizziamo una parte del mondo che, qualora fosse nella testa non esiteremmo a considerare parte del processo cognitivo, allora quella parte del mondo fa parte del processo cognitivo. Cosicché si può dire che la nostra mente sia in un certo modo estesa nel mondo e non tutta racchiusa nel cervello. L’esempio classico è quello di Inga e Otto, la prima perfettamente sana e in grado di recarsi nel museo che si era prefissa di visitare utilizzando la propria memoria, il secondo un anziano malato di Alzheimer, ormai quasi privo di ricordi, che però si scrive tutto su un taccuino e con le informazioni recuperate in ogni istante dai suoi appunti riesce ugualmente a raggiungere il museo nel momento desiderato. Ovviamente, le cose non sono così semplici e il dibattito è acceso, come ben illustra il libro. Tanto più che altri ambizioni progetti cercano di riportare l’intera spiegazione della nostra identità a strutture e meccanismi biologici: uno è il connettoma, la mappa del mondo un cui si collegano e si scambiano tra loro informazioni i miliardi di nostre cellule nervose, un’impresa grandiosa e futuribile, descritta in un volume straordinariamente informativo da Sebastian Seung (Connettoma. La nuova geografia della mente, Codice Edizioni, pagine 386, euro 15,90). Ciò non significa tuttavia che anche allora avremo catturato la coscienza; come scriveva Emily Dickinson in una poesia dalle molteplici letture: «Il cervello / è più grande del cielo / Perché, se li metti fianco a fianco, / L’una contiene l’altro / Facilmente, e te, anche».
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