Le carceri italiane sono incivili, la Corte Europea dei diritti dell’uomo ci ha già condannati (luglio 2009) e da allora le cose sono andate sempre peggio. E allora? Che cosa c’è di nuovo perché all’inizio dell’estate si torni a intonare la litania della tortura cento volte sentita, cento volte perduta? O che cosa dovrebbe ancora accadere, in un Paese dove i problemi non si discutono giudiziosamente sul tavolo, ma scoppiano per violenze e tragedie annunciate, da un capo all’altro della Penisola? Quanti suicidi ancora nelle "discariche" carcerarie? E invece qualcosa è accaduto. È accaduto che i direttori delle carceri non ci stanno più e vanno in piazza, perché il sistema arranca in uno stato di sostanziale illegalità, e rischia di esplodere. A giugno sono anche finiti i fondi della legge Smuraglia, quella che prevede sgravi fiscali per le cooperative che danno lavoro ai detenuti. Non si assume più, non ci sono più soldi. Il taglio colpisce il lavoro, un fattore del reinserimento sociale, dentro il devastante e stupidamente disumano ozio carcerario. Non se ne può più.Parlano da professionisti, i direttori. Ci rammentano l’essenziale, la parola scritta nella Costituzione; che la pena non è fatta per torturare, ma per emendare. Con accento non più sull’aspetto torturante, che abbiamo in orecchio con orrenda assuefazione, ma sull’aspetto emendativo, come speranza che sta fallendo. Singolare inversione del profilo reattivo contro l’insensatezza del carcere: non più, o non più solo, il dolore dei corpi in negativo, il picco della pietà stagionale che ci percuote sulla disperazione dei torturati di casa nostra. No, stavolta viene in gioco la verità o la fallacia della nostra sfida positiva, della nostra promessa di qualche salvamento, di qualche vantaggio sociale, scritto nella legge del 1975. Forse stiamo fallendo.È il problema della medicina che diventa veleno. È il problema della legalità che si morde la coda, quando a punire chi ha violato la legge è un carcere fuorilegge (la parola fuorilegge è di Alfano, gennaio 2009). Fu dichiarata l’emergenza, ricordate? Oggi l’emergenza perdura, si aggrava di continuo, esplode. Però è stata dichiarata. E di queste ipocrisie siamo stanchi tutti, e stavolta con i dirigenti carcerari in testa. In nome della Giustizia va chiesto alla giustizia perché lo Stato delinque per primo. Qualche giudice penale minimamente coraggioso, prima di condannare alla "reclusione" potrebbe rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità della norma che dà quella pena edittale, paragonando la realtà storica dell’attuale tortura carceraria al modello dell’articolo 27 della Costituzione. È una provocazione, lo so. Ma scommetto che la Corte costituzionale avrebbe tanto da scrivere.A volte scatta l’idea dell’amnistia, come un corto circuito; tosto rimbeccato dal pensiero che dopo poco tempo i recidivi rientrano. Ma è proprio questo aspro e desolato buonsenso ad avvertirci che se non serve far uscire la gente senza che sia cambiata, ci si deve finalmente chiedere a che serve tenerla dentro senza che cambi, senza che si offra e assecondi il cambiamento.È questa la forte novità del sit-in di oggi dei direttori di carcere. Non è più la sola descrizione disperata, a campeggiare. È invece il rischio che corre la parte costruttiva, la tenace speranza che vede afflosciate le vele, i progetti fiaccati, i fondi tagliati, l’attenzione appassita. Noi crediamo che l’allarme debba essere ascoltato da tutte le parti politiche, e con qualche passione perché il cammino dell’uomo verso il ravvedimento e la giustizia chiede in certo modo il rispetto di un mistero, dentro il dolore. Sciupare il dolore è una sorta di sacrilegio. Forse è utopia il sogno di una redenzione sociale senza dolore. Ma è certo follia la realtà di un dolore che non produce redenzione.