martedì 14 aprile 2015
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​Ragionare sulla legge elettorale per la Camera (il cosiddetto Italicum), che l’Assemblea di Montecitorio ha ripreso ad esaminare, dopo che il progetto di legge è stato modificato a gennaio in Senato, rischia di essere inutile, data la strumentalità con cui sia le critiche sia la difesa della riforma vengono formulate. Nato nel quadro di un accordo politico (fra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, il famoso "patto del Nazareno"), con caratteristiche funzionali ai presunti interessi dei contraenti di quel patto che è poi sostanzialmente saltato, l’Italicum è oggi avversato soprattutto da chi si cerca un terreno per vincere qualche battaglia contro il premier Renzi, che a sua volta lo difende per ragioni che in parte prescindono dal merito di esso. Detto ciò, due sono le critiche mosse alla versione attuale dell’Italicum (sensibilmente migliorata rispetto a quella originaria, grazie alla semplificazione delle soglie di sbarramento, inizialmente degne di un edificio barocco e ora uniformate al 3%, e l’innalzamento al 40% del quorum per conseguire il premio di maggioranza al primo turno, con ricorso negli altri casi al ballottaggio fra le due liste principali). Esse riguardano le due esigenze fondamentali che un sistema elettorale deve soddisfare: la governabilità, e quindi il rispetto del principio democratico; la ricostituzione del rapporto eletto/elettore, e quindi il principio di rappresentanza.
Dal primo punto di vista, l’Italicum si ispira sin dall’inizio – un po’ dogmaticamente – all’esigenza di produrre un vincitore «la sera stessa delle elezioni» e per questo prevede un premio di maggioranza alla lista che ottenga il maggior numero di voti, portandola a 340 seggi su 630. Qualora nessuna lista ottenga almeno il 40% dei voti al primo turno, si organizza un ballottaggio fra le prime due liste: a quella che ottiene più voti è attribuita la maggioranza dei seggi. I critici sostengono che questo sistema potrebbe permettere a un partito che raccolga il 20% dei voti al primo turno di ottenere la maggioranza dei seggi al secondo turno, distorcendo così la rappresentanza (anche perché, dopo le modifiche apportate in Senato, il premio è attribuito alla lista vincitrice e dunque al partito e non alla coalizione). Inoltre, combinato con la riforma del bicameralismo, che riduce fortemente il ruolo del Senato, l’Italicum favorirebbe la concentrazione dei poteri nel Presidente del Consiglio e nella sua maggioranza, quasi senza contrappesi. Nessuna di queste critiche è però fondata. Riguardo alla legittimazione democratica del vincitore, se è vero che una lista che ottenga solo il 20% dei voti al primo turno può ottenere al ballottaggio la maggioranza dei seggi, non è meno vero che ciò avviene perché l’elettore ha, nel ballottaggio, un secondo voto, che gli permette di scegliere fra i due partiti più votati al primo turno. Il vincitore nel ballottaggio è dunque legittimato da un voto distinto, anche se l’elettore, a quel punto, dispone di una scelta limitata a due sole opzioni.
Per quanto attiene alla concentrazione del potere, l’obiezione è irrealistica: in Italia esiste un eccesso e non un difetto di poteri di veto. Non solo da parte di detentori istituzionali di tale potere (dalla Presidenza della Repubblica alla Corte costituzionale, dalla Magistratura ordinaria e amministrativa al sistema delle Autonomie), ma anche di veto players sociali, considerata la struttura corporativa della società italiana. In questo contesto, rafforzare il ruolo del circuito governo/maggioranza parlamentare non è un punto debole, ma un punto qualificante e, piaccia o non piaccia, forte della riforma elettorale.Se l’Italicum supera, insomma, l’esame dal punto di vista delle esigenze di legittimazione e governabilità, più difficile è giungere alla stessa conclusione per quanto riguarda la seconda critica: quella secondo cui il nuovo sistema elettorale non eliminerebbe i deficit di rappresentanza che hanno caratterizzato la legge n. 270/2005 meglio nota come Porcellum, che lo scorso anno la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale. Esso non ricostituirebbe il rapporto elettore-eletto, in quanto l’elettore avrebbe davanti a sé liste di partito in collegi di dimensioni ridotte e potrebbe sì esprimere sino a due voti di preferenza (nel caso voti un uomo e una donna), ma i capilista sarebbero "bloccati" e dunque – ove eletti in virtù dei voti ottenuti dalla lista in cui sono inseriti – sarebbero di fatto scelti dalle segreterie di partito. Ne seguirebbe che solo gli elettori del partito vincitore avrebbero una reale facoltà di scelta dei deputati inclusi nella lista da essi votata, mentre gli elettori degli altri partiti potrebbero scegliere solo la lista, nella quale sarebbe eletto automaticamente il capolista. Se a ciò si aggiunge la possibilità delle pluricandidature e gli effetti casuali che l’attribuzione del premio di maggioranza su scala nazionale produrrebbe nei singoli collegi, ne risulterebbe una distorsione della rappresentanza, che non consentirebbe di ricostituire il rapporto elettore/eletto.
Questo secondo ordine di critiche pare, dunque, giustificato: anche se l’introduzione del voto di preferenza per candidati diversi dal capolista ha aperto canali di collegamento elettore/eletto che erano assenti nella versione originaria del "patto del Nazareno", il progetto di legge elettorale, nella sua versione attuale, non sembra adatto a fronteggiare seriamente la crisi della rappresentanza. Quest’ultima non è certo un fenomeno solo italiano, né è qualcosa cui possa trovarsi una soluzione facile. Ma se una critica fondata si può fare al progetto di legge e al modo in cui esso è stato elaborato e modificato, è proprio questa: non solo non si è cercata la soluzione al problema del riavvicinamento elettore/eletto, ma non si è visto il problema, concentrandosi quasi solo sull’obiettivo – pur importante – di produrre un vincitore. Ma questo è un nodo destinato a riproporsi: non averlo affrontato seriamente (anzitutto con una riflessione culturale, ponendosi le domande giuste) avrà conseguenze. Anche se l’Italicum dovesse diventare legge così com’è (e ciò sarebbe comunque augurabile, se l’alternativa fosse il naufragio puro e semplice delle riforme), la questione della legge elettorale – aperta ormai da 30 anni in Italia – non verrà chiusa da questa riforma, la quale nasce debole, non solo per il citato deficit di rappresentanza, ma anche perché, nata per unire il più possibile maggioranza e opposizioni, alla fine resta seriamente divisiva.
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