La crisi economica del 2012-2013 in Italia è stata così forte perché la famiglia è stata il soggetto più colpito dalle manovre di austerità, con l’aumento della disoccupazione, la riduzione del reddito disponibile e il crollo dei consumi interni, causando una reazione a catena sull’intero sistema economico. Si è dimenticato ciò che il mondo delle imprese ben conosce: e cioè che la famiglia è il fondamentale centro decisionale delle spese per consumi e investimenti, e per questo motivo la crisi economica italiana è stata in realtà la crisi economica delle famiglie italiane. È perciò alle famiglie, in primo luogo, che occorre restituire fiducia, oltre che potere di acquisto. Le intenzioni annunciate dal governo di un aumento delle detrazioni fiscali andranno in realtà a beneficio dei lavoratori dipendenti, anziché delle famiglie, depotenziando in partenza l’effetto moltiplicatore della manovra, che è impegnativa in assoluto, ma rappresenta solo una piccola frazione rispetto a quanto sono caduti i consumi negli ultimi anni.
A ciò si deve aggiungere che in Italia esiste una "disuguaglianza involontaria" associata al fatto che uno o entrambi i coniugi lavorino – e il lavoro di entrambi è ormai un fatto di necessità in quasi tutto il Paese: le famiglie in cui solo uno dei coniugi lavora sono evidentemente più esposte alle incertezze della crisi e al rischio di disoccupazione, ma purtroppo l’Italia è, fra i Paesi europei, uno di quelli nei quali è più elevata la quota di famiglie con un solo percettore di reddito. La "disuguaglianza involontaria" è a sua volta la conseguenza di una "disoccupazione involontaria" degli uomini, ma in particolare delle donne, e non casualmente è minore al Nord e maggiore al Sud. Le donne partecipano meno al mercato del lavoro per molti motivi: certamente è minore la domanda di lavoro, specchio della crisi delle imprese, ma è anche un segno della difficoltà a conciliare lavoro e cura dei figli piccoli, che sale bruscamente con il secondo figlio e diventa proibitiva dal terzo in poi.
Tutte le indagini statistiche confermano come il rischio di difficoltà economiche aumenti con l’aumentare del numero di figli, che a maggior ragione aumenta ancora di più quando vi è un solo percettore, come accade per le coppie monoreddito e le madri single. Il caso delle madri single mostra con evidenza una verità più generale: e cioè che imposte e tasse vengono pagate da tutti i componenti della famiglia, figli inclusi, ma ben poco di queste imposte ritorna sotto forma di servizi a misura dei bisogni delle persone. È proprio in questo ambito che la famiglia ha un’ulteriore funzione, tanto fondamentale quanto ignorata, e cioè di rispondere alla domanda dei bisogni di chi non ha ancora un "merito" di mercato, come i bambini, o di chi non ha più l’energia o le capacità per lavorare. Lo Stato sociale può svolgere in questo senso un ruolo fondamentale, potenziando il welfare familiare e moltiplicando i suoi effetti positivi sullo sviluppo.
L’esperienza della "Bolsa Familia" promossa dall’ex-presidente Lula in Brasile è un esempio indiscutibile del come un intelligente meccanismo di welfare possa dare il via a un enorme processo di trasformazione sociale: l’assegnazione di una piccola somma come trasferimento di reddito, pagato alle madri, a condizione che i figli frequentino le scuole ed entrambi siano seguiti sul piano sanitario, ha ridotto in modo netto la povertà e la disuguaglianza, e ha messo in movimento un rapido processo di formazione di una nuova classe media, perché chi esce dalla povertà, più sano e istruito, può aspirare ad avere un’occupazione e un reddito migliori. Così come il solo poter disporre dell’elettricità nelle case più povere, in Brasile, ha permesso a milioni di famiglie di accedere a beni che hanno migliorato in modo immediato il loro tenore di vita e ha aperto nuovi orizzonti al mondo delle imprese. Un numero crescente di bambini e ragazzi nelle scuole ha promosso un maggior volume d’investimenti e migliorato in tempi rapidi anche il patrimonio delle loro conoscenze. Il Paese è così cresciuto non solo sul piano delle quantità ma anche e soprattutto delle qualità. Si potrebbe obiettare che il Brasile rimane comunque un Paese emergente, ma sarebbe un’osservazione dal respiro corto, perché la crescita dei Paesi BRIC, nel frattempo diventati BRIICS, continua incessante su ritmi superiori a quelli di gran parte dei Paesi europei, mentre Paesi come l’Italia arretrano quietamente da due decenni e fanno ulteriore salto in basso quando cadono in una recessione. Non è semplice trovare la giusta alchimia da cui nasce uno sviluppo che si autoalimenta, ma è oltremodo pericoloso consentire il continuo deterioramento delle condizioni economiche e sociali, come è finora accaduto in Italia: la quota di popolazione anziana è crescente perché la popolazione giovane è in diminuzione, sia in assoluto che come quota. In Italia il numero di giovani di età fra i 20 e i 39 anni è diminuito di 2,5 milioni, nonostante l’arrivo di un numero elevato di giovani immigrati.
In questi ultimi decenni, a differenza di quanto accade in altri Paesi, le famiglie si sono dovute arrendere di fronte al costo troppo elevato del crescere un figlio, con redditi familiari dal potere d’acquisto in declino e uno Stato Sociale sempre più assente, e come conseguenza il profondo squilibrio demografico è oggi diventato una causa centrale della crisi economica e del debito. È ben noto come il nostro Paese investa molto poco sulle famiglie e i loro figli, ed è sufficiente varcare la frontiera fra Italia e Francia per rendersi conto del come ciò che qui è l’eccezione, una famiglia con tre figli, lì è invece normalità. Il loro welfare funziona meglio: non necessariamente dobbiamo copiare il loro, ma nemmeno possiamo permetterci il lusso di dimenticarcene.Un segno ulteriore di preoccupazione è il fatto che, nonostante il numero di giovani italiani sia in diminuzione, il loro tasso di disoccupazione aumenta, così come la loro precarietà, mentre le loro remunerazioni all’ingresso diminuiscono e un numero crescente decide di andare all’estero. Se questo è il momento di cambiare, allora il riconoscere la centralità della famiglia per un nuovo sviluppo del Paese rappresenta l’indispensabile premessa culturale.
Una riduzione delle imposte dirette ai livelli più bassi di reddito può avere in Italia effetti molto positivi, perché il terzo di famiglie con il reddito più basso è quello che maggiormente risente della regressività della struttura fiscale italiana: secondo nostre stime l’aliquota media d’imposta diretta diventa progressiva solo a partire dal terzo decile di reddito familiare, mentre l’incidenza delle imposte indirette è massima proprio per i redditi più bassi. Quindi è molto elevata la probabilità che un intervento che diminuisca le aliquote d’imposta, dirette e indirette, ai livelli più bassi di reddito, abbia un impatto rapido e immediato sui consumi e quindi anche sulle imprese. Per il 2012 abbiamo stimato in 402 miliardi di euro il peso dell’imposizione fiscale sulle famiglie: 10 miliardi sono solo una piccola percentuale, ma possono essere un segnale importante, a condizione che rispondano a criteri precisi di equità. In particolare per chi ha di meno, come gli incapienti.