Spiace rilevare come all’indubbia sapienza giuridica dei nostri magistrati non si unisca una parimenti adeguata sapienza bioetica. Nel solenne e tradizionale discorso tenuto in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario il presidente della Corte di Cassazione Vincenzo Carbone ha tessuto un elogio della ormai fin troppo citata sentenza della Cassazione sul 'Caso Englaro', rimarcando come i giudici abbiano definitivamente consolidato il riconoscimento dell’autodeterminazione terapeutica come diritto assoluto della persona. Probabilmente, da Carbone, nel suo ruolo di presidente, era difficile a questo punto aspettarsi un discorso di tipo diverso. Ma onestà vuole che si dica che in tal modo, anziché contribuire ad una chiarificazione delle idee (quanto mai necessaria in questi tempi!), egli ha invece favorito quella confusione tra politica e bioetica, che andrebbe accuratamente evitata, pena il consolidarsi di quel pericolosissimo paradigma 'biopolitico', che da tempo sta suscitando dubbi, preoccupazioni e angosce nei bioeticisti. Se infatti è vero che l’autodeterminazione è un valore 'politico' fondamentale, non è altrettanto vero che sia un valore 'bioetico' dotato di pari valore. Nell’esperienza politica, nella quale entrano in gioco, si confrontano e si scontrano interessi sociali, economici, culturali, ideologici, l’autodeterminazione è un principio di riferimento liberal-democratico di primario rilievo, che va tutelato e promosso attraverso un serio impegno individuale e collettivo: un mancato o anche un carente riconoscimento dell’autodeterminazione non può infatti che aprire la strada a pratiche sociali autoritarie. Quando passiamo però dall’orizzonte politico all’orizzonte bioetico, quando cioè il 'protagonista' della vicenda non è l’essere umano come attore sociale, ma l’essere umano come 'paziente', il discorso muta profondamente. Il rispetto profondo e sincero che dobbiamo all’autodeterminazione del malato, quel rispetto che ci induce a ritenere ormai definitivamente superata ogni forma di 'paternalismo medico', non può non coniugarsi con la consapevolezza che il paziente, ogni paziente è un soggetto psicologicamente e istituzionalmente debole, fragile, suggestionabile, bisognoso di particolarissime forme di tutela e che l’esaltazione del suo diritto all’autodeterminazione non può che rivelarsi quasi sempre come una formula vuota. Il principio ippocratico della tutela della vita non può essere confuso, come ha fatto la Cassazione, imprudentemente lodata da Carbone, con una 'opzione di valore e di cultura' (opzione, come tutte le opzioni, essenzialmente soggettiva e relativistica): esso è piuttosto da intendere come un dovere giuridico fondamentale, che grava sulla società in generale e sui medici in particolare. La scienza giuridica, nel suo lavoro plurisecolare, ha interpretato la prospettiva ippocratica elaborando la formula, assolutamente precisa, dell’'indisponibilità della vita': desta meraviglia che il presidente della Cassazione non abbia citato e nemmeno ricordato tale formula. Nel contesto del diritto fondamentale alla salute, il cui rilievo costituzionale è fuori discussione, esiste come diritto fondamentale della persona non quello di autodeterminarsi, ma quello di non essere sottoposto a terapie obbligatorie e coercitive: questo e non altro stabilisce il secondo comma dell’art. 32 della nostra Costituzione. Trasformando il diritto (negativo) di ogni paziente a non essere sottoposto a terapie coercitive nel diritto positivo all’autodeterminazione, la magistratura italiana ha lavorato su di un’immagine fittizia del malato e ha nello stesso tempo umiliato l’immagine dei medici, riducendoli da protagonisti dell’alleanza terapeutica al ruolo di passivi operatori di una sovrana volontà del paziente, spesso purtroppo ipotizzata, piuttosto che dimostrata al di là di ogni dubbio. Non deve destare quindi alcuna meraviglia che il Parlamento, in implicita polemica con recenti decisioni giurisprudenziali, si sia alla fine impegnato nell’elaborazione di una legge sulla fine della vita umana. Le fughe in avanti della Cassazione hanno eroso la nostra fiducia nella capacità dei magistrati di saper elaborare indicazioni biogiuridiche sagge e soprattutto prudenti, come è indispensabile che si faccia, quando si trattano situazioni estreme e tragicamente controverse. Auguriamoci che il Parlamento legiferi nella consapevolezza che quando è in gioco la vita umana il principio di precauzione ha un’assoluta priorità, anche e soprattutto nei confronti del pur nobile principio di autodeterminazione.