Studenti in classe con la mascherina in una scuola del Padovano - Ansa (10 giugno 2020)
Era una delle ultime lezioni dello scorso anno scolastico in una prima superiore. Avevamo appena terminato di leggere i poemi omerici. Ho chiesto alla classe: "Vi è piaciuta di più l’Iliade o l’Odissea?". Domanda banale, ma non ho resistito alla tentazione del sondaggio. La discussione si è accesa, con il solito esito scontato: ha vinto l’Odissea. Lì ci sono il viaggio, l’avventura, il fiabesco. Ci sono creature strane, magiche, orride: tutto è molto più vicino al gusto di oggi. Poi ha alzato la mano Camilla (non si chiama così, ma esiste veramente). Camilla è una ragazza con una sensibilità eccezionale, che scrive temi meravigliosi. È perspicace, brillante. Eppure spesso è sfiduciata, abbattuta. È capace di grande generosità, ma allo stesso tempo ti dice con un cinismo spietato che la vita non ha alcun senso. Camilla non sa quanto vale. Non vede la bellezza che ha dentro, come molte alla sua età.
Camilla, dunque, ha alzato la mano: "Prof, io ho preferito l’Iliade".
Mi ha stupito. "Come mai?" le ho chiesto. Si è stretta nelle spalle: "Perché Ulisse nell’Odissea è troppo perfetto. Troppo forte, troppo astuto, troppo sicuro di sé, troppo vincente. Nell’Iliade invece c’è l’incontro tra Achille e Priamo". Camilla parlava della scena bellissima in cui Priamo, re di Troia, si reca nella tenda del nemico Achille per chiedere la restituzione del corpo di suo figlio Ettore, che proprio l’eroe greco ha ucciso. I due nemici si trovano faccia a faccia: Priamo si inginocchia di fronte ad Achille e lo supplica e Achille, l’eroe dell’ira, stupisce i lettori di ogni epoca commuovendosi. Achille pensa a suo padre lontano, lo rivede in Priamo. I due piangono insieme, divisi in guerra, uniti nel dolore. Uniti nell’umanità.
"Ulisse è troppo perfetto" ha spiegato Camilla. "Achille e Priamo invece sanno mostrare la spaccatura che hanno dentro, la loro fragilità. Io mi rivedo molto più in loro". È stato uno dei commenti più belli che abbia mai sentito sull’Iliade, regalatomi da una quattordicenne. Ma gli studenti, si sa, spesso sono maestri di vita. Chi insegna è avvezzo a ricevere infinitamente più di quanto dona. Porto nel cuore le parole di Camilla all’inizio di un anno scolastico carico di timori e speranze. Forse questa fatica vissuta insieme nei mesi duri della pandemia, forse le fragilità emerse durante la Dad, forse il dolore e lo smarrimento che ci hanno attraversato, possono aiutare tutti noi, studenti e docenti, a fare come ha fatto Camilla: toglierci le maschere. Quelle maschere che noi prof indossiamo quando ce ne stiamo duri e inflessibili dietro la cattedra; quelle maschere che gli adolescenti indossano per difendersi.
La maschera del provocatore, dell’oppositivo, dello svogliato, del disilluso, e molte altre, ognuno la sua. Maschere che ci servono per nascondere la nostra insicurezza, che ci fa tanta paura, ma che è così fondamentale per coltivare la nostra umanità.
Che bello se quest’anno le materie che insegniamo potessero toccare davvero la vita dei nostri allievi, se potessero essere strumenti di incontro e di relazione autentica. Perché conoscenze, competenze e abilità sono fondamentali, ma non si possono acquisire al di fuori di una relazione, che si nutre soprattutto di empatia. Sogno una scuola così, fatta di tanti Achille e Priamo.
Una scuola dove i programmi non sono solo freddi elenchi di argomenti da verbalizzare, ma tappe di un cammino di condivisione. Una scuola dove le eccellenze vengono premiate, ma dove la prestazione non è un’ossessione e non diventa mai competizione. Una scuola dove le fragilità possano trovare casa. Perché la scuola in fin dei conti deve preparare alla vita, deve aiutare a essere felici, a cercare la propria verità. E non c’è verità senza dolore, come diceva il grande Umberto Saba: «Amai la verità che giace al fondo, / quasi un sogno obliato, che il dolore / riscopre amica». Buona scuola a tutti. Con qualche maschera in meno, nonostante le mascherine.
Insegnante e scrittore