martedì 17 novembre 2015
​Scuola e relazioni vere battono la barbarie. Riflessione di Eraldo Affinati.
Il ministro Giannini: dibattito nelle scuole, no all'odio
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Inutile negarlo: gli attentati del 13 novembre sono destinati a lasciare il segno, fuori e dentro di noi. Ma se le rovine ancora fumanti di quanto accaduto a Parigi ci spingessero alla chiusura isterica, tornando a concepire i nostri valori come beni da conservare nel salvadanaio, avrebbero vinto loro, quelli che vogliono bruciare i ponti, impedire il dialogo, contaminare il terreno dove invece ci dovremmo incontrare.  Nei giorni scorsi Aziz, un ragazzo afghano al quale insegno l’italiano, mi ha chiesto qualcosa che sulle prime non ho compreso. Faceva dei gesti mischiando la sua lingua con una specie di inglese imparato dalle truppe di occupazione a Kabul. Mi è bastato qualche istante per venirne a capo: voleva che gli trovassi un posto dove pregare. Ci siamo alzati interrompendo la lezione sui verbi. L’ho guidato nel corridoio dell’istituto. Le aule erano tutte occupate. Abbiamo dato un’occhiata nei bagni. Per una frazione di secondo ci è venuto in mente che poteva essere una soluzione. Poi lui, con mossa rapida, ha scelto un angolo sotto il finestrone, nascosto dietro la porta di un’aula lasciata socchiusa. Ha estratto il tappetino dallo zaino e lo ha disteso a terra, credo in direzione della Mecca. Io, come un’improvvisata scolta, sono rimasto in piedi a garantirgli la necessaria concentrazione. Vorrei poterlo dire con la minore enfasi possibile: dovremmo ripartire dall’intensità spirituale che mi ha comunicato questo semplice episodio. Cercare insieme piattaforme comuni nelle quali intenderci: sentimenti universali che non prevedano timbri sul passaporto per essere attraversati. Si tratta di una sfida pericolosa, eppure ineludibile. Siamo altresì consapevoli della necessità di accettare il patto sociale che impedisce agli uomini di sbranarsi a vicenda. Ma non possiamo illuderci di consegnare al legislatore un’opera umana così grande. Dobbiamo prenderci in carico lo sguardo altrui assumendoci il rischio presente in ogni autentica relazione. Ancora una volta la scuola diventa il luogo del confronto, il laboratorio antropologico altrove nemmeno immaginabile, la risposta sociale più significativa che possiamo dare agli attacchi terroristici, anche perché a sedici, diciassette anni, l’età di Aziz, venuto in Italia per sfuggire al reclutamento dei taleban, ma anche quella di Giovanni, che gioca a pallone nella sua stessa squadra, ogni impresa sembra attuabile.  Tuttavia come fare in concreto per favorire nel sistema dell’istruzione nazionale la formazione di una nuova coscienza europea?  La presenza di classi multietniche non è sufficiente. I dibattiti, le conferenze e i minuti di silenzio, pure apprezzabili, rischiano di servire a poco. C’è bisogno di azioni pedagogiche adeguate, capaci di entrare nel vivo della questione che non riguarda soltanto docenti e alunni, programmi da svolgere e titoli di studio da rilasciare, bensì chiama in causa la tradizione storica del Vecchio Continente, i cui trascorsi coloniali, ammettiamolo, sembrano smorzare il vento della belle bandiere, fino al punto di gettare un’ombra lunga su qualsiasi dichiarazione ufficiale a proposito dei diritti dell’uomo e del cittadino.  Dobbiamo avere la forza di affrontare anche il nostro passato per riuscire a guardare negli occhi chi abbiamo di fronte. Da tempo, nel mio piccolo, sto cercando di mettere in relazione gli studenti italiani con i giovani profughi. Vado nei licei e cerco volontari disposti a insegnare la lingua italiana agli immigrati. Trovo sempre una grande disponibilità. Un notevole entusiasmo. Peraltro tale proposito si può inquadrare perfettamente nell’alternanza scuola-lavoro che la nuova riforma ha reso obbligatoria in tutti gli istituti secondari superiori. Guardare Alessandra e Vanessa sedute di fronte a Omar e Faris, le une impegnate a spiegare i plurali e i singolari, gli altri pronti a fare gli esercizi, non è solo uno spettacolo degno di rilievo dal punto di vista didattico; a mio avviso è anche l’unico modo per contrapporsi alla barbarie, senza rinunciare, questo è decisivo, alla nostra identità, piuttosto mettendola in gioco per non lasciarla ammuffire o, peggio ancora, vederla trasformata, come avrebbe detto Luigi Pirandello, in una maschera nuda.
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