Aule aperte, occhi chiusi. Ma la scuola chiama cittadinanza
venerdì 6 settembre 2024

Con la ripresa del nuovo anno scolastico si torna a fare l’appello dei bambini e degli adolescenti, maschi e femmine, bianchi e neri, bravi e svogliati, attivi e negligenti, rientrati nelle aule dopo la pausa estiva: quasi un milione di loro, pur essendo nati e cresciuti nel nostro Paese, sono privi della cittadinanza italiana. In quanto docente di Lettere negli istituti superiori, ne ho conosciuti tanti, e questa cosa mi ha fatto sempre impressione. Come dimenticare il grande Michelangelo Opara, nigeriano purosangue eppure romanissimo fino al midollo, col quale scherzavo quasi ogni giorno perché, chiamandosi così, giocava in porta e, pur abitando nell’estrema periferia della capitale, era tifosissimo del Milan e io della Magica? I compagni gli volevano bene e lui, alto e grosso com’era, mi aiutava a tenere a bada i più scalmanati quando alla fine dell’ultima ora si piazzava di fronte all’uscita evitando che la classe sciamasse fuori prima del suono della campanella. Non erano ragazzi facili da gestire, avevano storie familiari a dir poco complicate, ma devo confessare che mi sono rimasti nel cuore, assai più di quelli attenti e concentrati. Se a qualcuno scappava una parola di troppo, Michelangelo, a mo’ di scongiuro, baciava la croce appesa alla catenina che teneva sul petto. I compagni gli volevano bene ma lui non era cittadino italiano. Si trattava con tutta evidenza di un’ingiustiza incarnata.

L’ho pensato tante volte anche negli anni successivi, vedendo molti di questi adolescenti di seconda generazione trasformarsi in piccoli docenti dei loro coetanei appena arrivati dall’Africa, dal Maghreb, dal Bangadesh, dal mondo slavo. Nelle scuole Penny Wirton – ormai quasi settanta postazioni didattiche sparse lungo lo Stivale, dalla Sicilia al Friuli Venezia Giulia e perfino in Ticino, a Lugano, nello stesso liceo cantonale dove ha studiato Elly Schlein – noi insegniamo gratuitamente l’italiano agli immigrati in un rapporto uno a uno. Molti dei nostri volontari sono proprio i giovani italiani privi di cittadinanza: paradossale, no? Alima, figlia di egiziani, iscritta al liceo scientifico “Francesco d’Assisi”, spiega ad Ali e Omar il lessico e la sintassi, ma all’anagrafe non risulta italiana. Come è possibile giustificare tale stortura?

Le responsabilità non sono univoche e a mio avviso vanno distribuite in modo uniforme tra le forze di destra, da sempre avverse per ragioni prettamente ideologiche, a quelle di sinistra, che quando ci fu la concreta possibilità di rinnovare la vecchia legge sulla cittadinanza del 1992 dimostrarono nelle aule del Parlamento una ritrosia – per usare un eufemismo – davvero sconcertante, finendo per affossare ogni volontà propositiva. Una ferita dolorosa che ha scavato un solco profondo in larghi strati dell’opinione pubblica. Da una parte c’è stato, e purtroppo dura ancora, il miserabile calcolo elettorale teso a lucrare un facile consenso nella popolazione meno consapevole che, invece di essere istruita, è stata spinta a considerare l’immigrato, prima ancora che una persona, un corpo estraneo, se non contundente; dall’altra ha prevalso il timore di non essere compresi da quanti, pur ritenendosi riformisti, percepiscono la presenza degli extracomunitari come una potenziale minaccia. Ma questo dipende dal fatto che ben pochi, fra gli esponenti politici di ogni schieramento, sono riusciti a raccontare l’immigrazione, fuori dagli stereotipi positivi o negativi, per quello che veramente è: sangue nuovo, prezioso e necessario nelle nostre vene, da qualsiasi punto di vista la vogliamo guardare, economico, sociale, culturale, religioso.

Come spesso ripeto: i nuovi italiani non vanno né criminalizzati né idealizzati. Bisogna conoscerli. Non parlarne in astratto. Dobbiamo superare gli steccati, fuori ma anche dentro noi stessi. L’unico che in questi anni lo ha fatto, mettendo a frutto la propria esperienza umana concreta, è stato Papa Francesco, in perfetta sintonia col presidente Mattarella, ottenendo il plauso di credenti e non credenti, a dimostrazione di quanto sia importante assumere la responsabilità dello sguardo altrui. E in quale altro luogo ciò quotidianamente avviene se non nella scuola, motore pulsante, laboratorio antropologico permanente, sorgente e foce del sapere, centro essenziale dove si formano le coscienze dei futuri cittadini? Ecco perché il dibattito sullo ius scholae, invece di continuare a configurarsi come una pietra d’inciampo che ostacola e impedisce l’analisi, dovrebbe essere sganciato dalle strumentalizzazioni dei partiti ed assumere piuttosto una dimensione trasversale di buon senso che chiama in causa tutti noi: un terreno comune d’intesa collettiva per il bene del Paese.

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