Con un ampio documento, approvato il 13 giugno a Terni, la Federazione italiana che raccoglie gli Ordini provinciali dei medici ha voluto prendere posizione sullo scottante tema delle dichiarazioni anticipate di trattamento: e questo era non solo un suo diritto, ma anche un suo dovere. A chi tuttavia chiedeva una prima valutazione del documento mi è venuto da rispondere con un’antica e nota facezia: esso contiene molte affermazioni sagge e molte affermazioni nuove; purtroppo quelle sagge non sono nuove e quelle nuove non sono sagge. Non c’è alcuna novità – ma è comunque estremamente apprezzabile l’averlo ribadito – nel fatto che i medici abbiano confermato la loro piena adesione ad alcuni classici principi bioetici e deontologici: il dovere di beneficialità, il no all’eutanasia, l’impegno contro l’abbandono e l’accanimento terapeutico, il doveroso rispetto dell’autonomia dei pazienti. Così come è lodevole, anche se non è assolutamente nuova, la reiterata affermazione secondo la quale è nell’"alleanza terapeutica" che bisogna individuare il criterio fondamentale cui ispirare sempre e comunque il rapporto tra il medico e il paziente. Quando però passiamo a valutare le affermazioni che nel Documento introducono una qualche novità, viene davvero da dubitare che esse possano essere ritenute "sagge". Non intendo insistere sul punto in cui il documento, con esplicito riferimento agli stati vegetativi, qualifica la nutrizione artificiale, con un generico riferimento ad "una vasta ed autorevole letteratura scientifica", come trattamento medico, lasciando intendere, con un prosa particolarmente affannosa, come dovrebbe essere ritenuto lecito sospenderla, nel rispetto di dichiarazioni anticipate redatte dal paziente. Sappiamo come su questo punto la Federazione non sia riuscita ad ottenere l’unanimità e che le opinioni dissenzienti di alcune Federazioni, numericamente limitate ma altamente qualificate, abbiano giustificato il timore di uno "scisma" nell’Ordine dei medici: mi limito a biasimare l’imprudenza con cui è stato varato un documento non unitario e indubbiamente redatto troppo frettolosamente. Ma il punto centrale della questione, a mio avviso, non è propriamente questo, anche se non mi sfugge la rilevante portata bioetica e biopolitica della questione. Ciò che mi ha colpito nel documento della Federazione è l’auspicio che il legislatore entri su queste "delicate e intime" materie che sono le questioni di fine vita con un "diritto mite". Il carattere ideologico di questa espressione è indubbio, così come è indubbia la sua ambigua connotazione liberal/libertaria. Perché non si è usata l’espressione "diritto giusto"? La "mitezza" può ben essere apprezzata come una virtù politica, capace di qualificare il buon governo di sovrani illuminati, psicologicamente aperti alla benevolenza verso i loro sudditi, ma con la bioetica non ha davvero nulla a che fare. In bioetica parliamo di questioni di vita e di morte, che vanno affrontate e regolate in base a stretti principi di giustizia e che soprattutto vanno depurate da ogni coloritura pateticamente emotiva (quella coloritura che, da che mondo è mondo, ha sempre dato sostanza sentimentale più che argomentativa alle rivendicazioni a favore dell’eutanasia). E ancora: perché definire le situazioni di "fine vita" come "delicate e intime", quasi che esse abbiano un rilievo strettamente privato? Per il diritto, la morte, ci piaccia o no, ha sempre un rilievo pubblico, così come, conseguentemente, deve avere un rilievo pubblico la medicina. Nelle aperture della Federazione alla legittimazione della sospensione della nutrizione artificiale emerge un oggettivo e indebito pensare alla morte come a un fatto privato, da affidare alla pretesa volontà sovrana dei pazienti, una volontà impaurita, fragile, spesso non identificabile. La prova di quanto detto emerge dall’ultima, e anche essa non saggia, novità contenuta nel documento, la richiesta che il legislatore garantisca ai medici il diritto all’obiezione di coscienza nei confronti delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Ora, è sensato richiedere la legalizzazione del diritto all’obiezione solo a fronte di specifici e vincolanti obblighi legislativi. Forse la Federazione, con questa pur comprensibile richiesta, pensa che sia ineluttabile che possa divenire un obbligo per il medico quello di assecondare la richiesta di eutanasia passiva di un malato?