Mai dire mai. Chi pensava che le 514 mila nascite del 2013 – un minino che mai si era registrato dall’unità nazionale ai tempi nostri – fossero un confine difficilmente superabile, è stato smentito dai 509mila nati del 2014, secondo quanto registra l’Istat. E già il 2015 potrebbe "regalarci" la discesa oltre il confine simbolico del mezzo milione di nascite. Ecco dunque il drammatico bilancio demografico di un Paese in cui sessanta milioni di persone "producono" nascite sufficienti a garantir loro nel tempo, attraverso i processi di ricambio generazionale, una dimensione demografica di poco superiore ai 40 milioni abitanti. Ecco l’amara realtà di un tessuto sociale, economico e culturale dove agiscono quei meccanismi di rinvio nell’avere un figlio, talvolta trasformato in definitiva rinuncia, che hanno portato le donne italiane ad esprimere in pochi decenni una fecondità ridotta del 50%, con un sensibile innalzamento dell’età di ingresso alla maternità accompagnato da un consistente taglio degli ordini di nascita superiori al secondo e spesso anche al primo. Non dobbiamo dimenticare che è da ben 38 anni (dal lontano 1977) che in Italia il numero medio di figli per donna, il cosiddetto "tasso di fecondità totale", risulta inferiore alla soglia richiesta per assicurare la semplice sostituzione tra la generazione dei genitori e quella dei figli. A testimonianza di un segnale di crisi che viene da lontano e che è profondamente legato alla dinamica del ciclo familiare: la fecondità da noi è interna al matrimonio in quattro quinti dei casi, là dove in molti Paesi europei si è prossimi a uno su due. Aver dilatato la permanenza dei giovani in famiglia ha fatto sì che si siano modificati anche i tempi che ne cadenzano gli eventi successivi: si studia più a lungo, si trova il primo impiego più tardi, si esce a fatica dal nucleo di origine, si ritarda il matrimonio e quindi il primo (e spesso unico) figlio arriva in molti casi ben oltre i 30 anni. Così, per quanto la fecondità in età "matura" sia oggi abbastanza rilevante, essa non basta a recuperare il contributo mancante delle età più giovani: avere figli più tardi significa inevitabilmente averne meno. Allo stesso modo, non basta a compensare il calo della fecondità delle donne italiane il pur significativo contributo che da alcuni anni proviene dalle famiglie straniere. L’apporto di queste ultime – circa 80 mila nati nel 2012, scesi peraltro a 72 mila nel 2014 – è certamente importante ma non va affatto visto come risolutivo per invertire le dinamiche in atto. Anche perché i dati mostrano come l’adattamento della popolazione immigrata al modello riproduttivo della società ospite proceda a ritmo veloce. Se infatti nel 2008 il valore medio della fecondità tra le straniere era ancora stimato in 2,65 figli per donna, nel 2012 era già sceso a 2,37 e, secondo la stima più recente, è scivolato sotto la soglia dei due figli (1,97 nel 2014). La verità è che la prevista "rivoluzione delle culle", che qualcuno teorizzava sull’onda dell’immigrazione, si è rivelata una falsa aspettativa. L’esperienza ha chiaramente dimostrato che la bassa fecondità non ha nazionalità quando si condividono le ben note difficoltà nel far crescere la famiglia. L’adattamento degli stranieri al modello riproduttivo italiano appare progressivo e non sorprende, viste le condizioni di contesto particolarmente difficili per coppie in cui spesso lavorano entrambi i partner e che, diversamente da quelle italiane, difficilmente possono contare su altri familiari per la cura dei figli. Contenere la fecondità rappresenta dunque una "strategia difensiva" anche da parte della popolazione straniera. È un altro segnale inequivocabile che i dati statistici consegnano alla società e a chi, al suo interno, ha la responsabilità di decidere gli ambiti di intervento e le azioni con cui operare per il bene comune. Il confine di mezzo milione di nascite è dietro l’angolo, cercare di contrastarlo appare doveroso e forse ancora possibile; se lo si vuole veramente.