giovedì 3 luglio 2014
​Previsto dal Jobs Act, potrebbe essere fissato a 7,38 euro.
di Francesco Riccardi
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Troppo basso si rivelerebbe inutile, troppo alto avrebbe effetti negativi sull’occupazione. Uniforme ingesserebbe il mercato del lavoro, molto variabile perderebbe il suo potenziale equitativo. Introdotto per decreto spiazzerebbe i sindacati, deciso dalle parti sociali sarebbe un doppione dei contratti. Il salario minimo orario è più facile a dirsi che a farsi. E la sua introduzione, prevista dalla legge delega sul lavoro ora in discussione al Senato, è tra i capitoli assieme più delicati e complicati.Salario minimo, tutti (o quasi) controIl Jobs Act ne parla in maniera molto prudente all’articolo 4 comma c: «Introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso minimo orario, applicabile a tutti i rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale». L’intenzione è dunque quella di muoversi solo dopo aver ascoltato sindacati e organizzazioni datoriali, dalle quali però difficilmente potrà venire un sì convinto. Cgil, Cisl e Uil, infatti, sono fermamente contrarie per motivi di principio e di opportunità. Il principio è quello della prevalenza della contrattazione sulla legge. In Italia, infatti, sono gli oltre 400 contratti nazionali di categoria a stabilire i livelli di retribuzione. «La fissazione per legge o da parte di un’autorità terza di un minimo orario rischia di interferire in maniera negativa nella negoziazione dell’intera struttura salariale, con un probabile schiacciamento verso il basso di tutti gli stipendi», spiega Luigi Sbarra, segretario confederale Cisl. «Oggi il sindacato è in grado di contrattare in maniera quasi "personale" un migliaio di minimi salariali suddivisi per categorie, livelli, mansioni. Che senso avrebbe fissare un minimo legale? Se il problema sono i lavoratori non coperti dalla contrattazione nazionale, la risposta è semmai quella di "agganciarli" ai contratti di categoria, come si è fatto ad esempio per i lavoratori a progetto dei call center». Altri, sempre nel campo sindacale, temono che il salario legale sia la premessa per superare i contratti nazionali e arrivare alla contrattazione aziendale come unico piano di negoziazione dei salari oltre il minimo. Ancora più esplicito l’allarme di chi, come l’ex leader della Cisl negli anni ’70 Pierre Carniti, vede nella scelta del governo l’ennesimo tentativo di svuotamento del ruolo dei corpi intermedi di rappresentanza. Rifacendosi alle teorie sulla «poliarchia inclusiva» del sociologo Robert Alan Dahl, Carniti evidenzia che quando «la legislazione svuota la contrattazione, di fatto sostituendola, si finisce per sterilizzare anche il rapporto tra società e Stato, tra dialettica sociale e sintesi politica, fra democrazia formale e democrazia deliberativa. Insomma, la democrazia sostanziale subisce un duro colpo». Anche fra gli imprenditori prevalgono le perplessità. «Non siamo pregiudizialmente contrari, ma certo si tratta di un’invasione di campo rispetto alla contrattazione – dice Pierangelo Albini, direttore delle relazioni industriali di Confindustria –. Se ne può eventualmente parlare per alcuni settori e aree particolari, ma gli interrogativi restano tanti: per quale finalità si introduce un minimo legale? Chi lo determina? Quale impatto avrà? Chi ne controlla il rispetto?». Soprattutto, si fa notare in casa degli industriali, andrebbero poi modificate una serie di norme e comportamenti. Ad esempio: per ottenere un appalto si dovranno rispettare i minimi contrattuali o solo quello legale?».
Nebbia fitta sul progettoInsomma, i dubbi sono tanti e le certezze poche. Anche perché il governo non ha ancora scoperto le carte e al ministero del Lavoro confermano di non aver ancora iniziato a elaborare la linea d’intervento che dovrà dare corpo a quanto previsto nella legge delega in discussione. Di certo c’è la spinta che viene dall’estero. Il salario minimo legale è già previsto nelle legislazioni di 22 Paesi dell’Unione europea e il presidente Obama ha ingaggiato una battaglia con il Congresso per alzare quello in vigore negli Usa, ma è stata la decisione della Germania di introdurlo a partire da gennaio 2015 a imprimere la svolta decisiva all’apertura del dibattito anche da noi. In realtà, dopo la pressione dei socialdemocratici e il sì della Cdu-Csu, anche a Berlino ora prevalgono i timori. Gli industriali temono che il livello fissato – 8,5 euro l’ora – sia troppo alto e provochi un calo degli occupati, in particolare nei lander dell’Est. Come potrebbe essere da noi nel Mezzogiorno. Tuttavia, proprio al modello tedesco si rifà l’economista dell’Università Cattolica Giacomo Vaciago, fresco di nomina come consulente del ministro del Lavoro. «Il salario minimo ha senso a certe condizioni e occorre valutarne bene costi e benefici – spiega –. Deve essere quindi oggetto di valutazione delle parti sociali, non certo essere una scelta anti-sindacale. Deve essere rivedibile nel corso del tempo e non uguale per tutte le aree del Paese né per tutti i settori». Un salario minimo differente per aree del Paese, dunque? Dal punto di vista delle dinamiche economiche sarebbe giustificabile e forse anche utile per favorire la crescita dell’occupazione, ma sul piano sociale troverebbe certamente l’opposizione del sindacato, contrario a reintrodurre di fatto una sorta di gabbie salariali. C’è poi un’ulteriore complicazione e riguarda il problema di come e se differenziare il minimo legale in base all’età. In alcuni Paesi i più giovani arrivano gradualmente a "conquistare" il livello del salario minimo, anche per evitare che, ad esempio gli apprendisti, abbandonino i contratti di formazione con bassa retribuzione per dedicarsi a "lavoretti" di minore qualità ma meglio pagati con il salario minimo.
Sì, ma quanto si paga?Discussi tutti i pro – in particolare la tutela di quel 15% di lavoratori non coperto dalla contrattazione sindacale – e i numerosi contro, si arriva al punto più delicato: a che cifra fissare il salario minimo legale? Nei Paesi europei, di norma, il suo valore oscilla tra il 35 e il 60% del salario mediano, la Germania ha scelto il 51%. Oltre il 60% per gli economisti si rischiano seri contraccolpi sull’occupazione, sotto il 35-40% l’effetto dell’introduzione sarebbe nullo o quasi. Se si prendono a riferimento gli ultimi dati pubblicati lo scorso anno dall’Istat (e relativi al 2010) la retribuzione media per ora retribuita è pari in Italia a 14,48 euro (16,6 in Germania). Applicando una percentuale simile a quella scelta dal governo di Berlino, il salario minimo legale da noi oscillerebbe intorno ai 7,38 euro l’ora. Un livello troppo alto o troppo basso? Se si guarda ai minimi dei contratti nazionali, il settore tessile-abbigliamento con 6,6 euro l’ora è a un piano decisamente inferiore, mentre altri comparti come l’agricoltura 7,13; il commercio 7,14 e la metalmeccanica 7,32 sono intorno a quella cifra. Meglio fanno già edilizia 7,59; alimentari 8,21 e credito con 11,11 euro l’ora. Fa eccezione il contratto delle colf, per le quali il compenso orario da contratto varia da un minimo di 4,47 euro l’ora a un massimo di 7,93 per le super-specializzate. In questo caso il minimo legale farebbe scattare aumenti per quasi tutte le fasce contrattuali previste. Fin qui, però, si parla di lavoratori comunque coperti dall’applicazione rigorosa di un contratto nazionale. Diverso il discorso per i lavoratori parasubordinati e per quei segmenti di mercato nei quali vengono eluse le maglie dei contratti nazionali, attraverso il subappalto in grigio e le false cooperative: è qui dove il salario minimo dovrebbe migliorare le condizioni dei lavoratori ed essere veramente un minimo legale. Ma vedrà la luce?
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