Là c’è quella 'dello strozzapreti', più in là quella 'dell’erbazzone', o quella del pesce arrosto. Dalle mie parti c’è pure quella dello Scalogno di Romagna. Che non è una forma di malocchio ma un saporitissimo parente della cipolla, la cui coltivazione è antica almeno di 3.000 anni. Le 'sagre' d’estate (e, poi, di primo autunno) spuntano ancora ovunque, annunciate dai loro cartelli inverosimili nella età di internet, a volte con scelte grafiche ispirate al più puro stile 'pugno nell’occhio'. Annunciano con fierezza allegra e strampalata che si festeggiano, si rendono sacri certi giorni in onore di un certo piatto tipico, o di un certo tipo di salume, di un fungo o di una pianta. Siamo nella età del virtuale e del globale, ma soprattutto se giri in luoghi dove transitano villeggianti e vacanzieri, ti imbatti in certi cartelli con titoli teneri e pittoreschi: dalla 'fiera della Trippa' alla 'Notte magica delle Vongole'. Tutto un festeggiare, un con-sagrare, un trovar occasione per far festa intorno a qualcosa, spesso di umile e di semplice (cosa è festeggiare una vongola?). In questo punteggiarsi di sagre e simili, si può leggere una specie di 'resistenza del reale'.Siamo in una epoca dell’astrazione, dove persino le feste, trasformatesi in notti bianche, rosa etc, perdono un aggancio con un motivo reale, con una circostanza o un segno, per diventare celebrazioni improvvisate dove, gratta gratta, l’unico motivo per far festa è il bello di far caos ogni tanto e la circolazione di quattrini. Non che i due suddetti elementi (voglia di rumba e denaro) non animino pure la sagra 'della pizza fritta Cannetana' o 'della ranocchia', ma in questi ritrovi permane appunto il motivo colto nel reale, in un piccolo elemento della vita, insomma in un dono – persino un po’ strano – da festeggiare.Nell’epoca dell’incorporeo, del tutto mentale e techno , del virtuale e della vicinanza apparente, questo congregarsi intorno a cose realissime (e saporite) ha quasi l’aria di una segreta e allegra insurrezione. Certo i cartelli che invitano alla sagra 'del risotto tartufato' o 'della bistecca' non sono propriamente slogan di protesta e non sono contro nessuno. Ma a vederli affissi lì, spesso improbabili su rotonde o semafori, danno l’idea di qualcosa di quasi carbonaro nell’epoca della comunicazione virtuale e del tutto come se fosse niente.Lì c’è 'qualcosa' in gioco, un elemento concreto, una precisione di giorno, di elemento per cui vale la pena 'consacrare' un tempo. Tale elemento reale può essere un frutto della terra o del lavoro estroso (spesso culinario) di povere e antiche tradizioni. Si fa festa davvero per qualcosa insomma. E poi ognuno porta in quella 'sagra' tutti i suoi motivi privati o pubblici di festa (o di malinconia). Non sono feste 'impersonali'. Sono sagre, consacrano un giorno a qualcosa, riconoscendo che il tempo può essere fatto 'sacro' (anche al di fuori di esperienze di fede precise) proprio perché l’uomo che usa la ragione ha uno sguardo che incrocia il sacro ovunque.
Nelle sagre si dà questa traccia altissima e popolare: la realtà conta e dev’essere consacrata, così se coglie meglio il valore. Uno sguardo che riconosce un livello del reale da cui provengono e che segna il destino delle cose, sia pure una umile pianta o un cibo. E dunque in un certo giorno ci si ricorda di tale dono, di tale grandezza, di tale mistero. Consacrare il tempo a qualcosa, come sa chi ama, significa riconoscere nell’oggetto amato una dignità oltre l’apparenza. Un atto di amore e conoscenza. Perciò val la pena consacrare un giorno anche al ravanello. O alla cicala di mare. O alla tagliatella e al palio del somaro.