Si può rubare la vita prima che sbocci, fare essiccare un germoglio prima che fiorisca, svuotare l’animo prima che venga riempito delle cose belle, e di quelle faticose, dell’esistenza. Accade continuamente, sui teatri di guerra, nelle società povere che non possono far crescere i bambini, negli ambienti dove la malavita insegna a vendersi, colpire, uccidere, come pratiche correnti, meritorie agli occhi dei boss. Ma quando le peggiori cose accadono nelle terre del benessere, della sazietà, a due passi da noi, ci ritroviamo piegati e umiliati. Ci accorgiamo che ci siamo privati di ciò che ci rende persone, abbiamo saputo rubare la vita dei più piccoli, senza nemmeno il senso del dramma, del rimorso; non riusciamo a declinare lo stupore, lo sconcerto, di trovarci d’improvviso all’inferno. Su ciò che è accaduto nel giro di prostituzione minorile in un quartiere elegante di Roma s’è già scritto molto. S’è parlato di gap generazionale, incomunicabilità tra genitori e figli, responsabilità degli adulti; s’è discusso della pubblicazione di verbali, intercettazioni, che svelano il degrado in cui sono cadute vite giovanissime, si sono date perfino indicazioni per una educazione al web sicuro. Tanti genitori, o nonni, hanno guardato con tenerezza e tremore i propri figli, o nipoti, ringraziando Dio di trovarsi in un altro mondo, un universo parallelo, lambito ma non ancora colpito dal male. Tutte cose giuste, sentimenti umanissimi, che però non devono impedirci di guardare dentro l’abisso che abbiamo davanti.C’è qualcosa che stentiamo ad affrontare, che chiama in causa tutti noi, nessuno escluso. È l’assuefazione al male cui ci stiamo condannando, da quando un’ideologia che proclama la sovranità dell’Io espunge in ogni modo l’amore e la cura della persona nella sua unità psichica e spirituale, dalla nostra vita, dalla funzione della scuola, dei media, dell’educazione, cedendo all’inevitabile. Abbiamo riscoperto la banalità del male quando abbiano letto della giornata delle ragazzine, divisa tra i compiti, la scuola, gli incontri con gli orchi, il calcolo dei guadagni, le telefonate con gli adulti che aspettavano al varco. Tanti si sono chiesti: ma nessuno ha insegnato nulla a queste ragazze, la famiglia, la scuola, l’ambiente in cui vivono che non era di miseria? Nelle domande c’è un po’ d’ipocrisia. Siamo sicuri che oggi sia facile insegnare con passione, dolcezza, delicatezza, a crescere, a scegliere il bene quando da decenni abbiamo cancellato il concetto di etica dal nostro vocabolario, l’abbiamo espulso da una scuola che deve essere neutrale e "tecnica" (anche quando decide di fare "educazione sessuale"...), dal mondo del diritto che è solo procedura e non può avere nulla a che fare con i princìpi della morale naturale, quando abbiamo teorizzato che in sostanza la vita è fisicità, e questa reclama libertà assoluta, non tollera formazione, selezione, rinunce? Se ci ponessimo queste domande, dovremmo ammettere ciò che non vogliamo dire. Sappiamo che la banalità del male riguarda non solo chi abita ai Parioli, ma i mercati della prostituzione minorile aperti in tutto il mondo, nei Paesi più poveri in particolare, perché gli uomini più ricchi o forti possano fare ciò che vogliono al riparo da rischi di coinvolgimento, per tornare poi nella propria terra, nella propria casa, presuntivamente civili.
Sappiamo che gli idoli del possesso e del commercio hanno soffocato la libertà di fare il bene, anche il più semplice. Quando un ragazzo o una ragazza si accorgono di poter comprare e vendere tutto, quale forza interiore impedirà di fare il primo passo verso il baratro, se l’interiorità è già essiccata, ogni remora è recisa, espulsa dallo stesso lessico della scuola e della famiglia? Che cosa può fare una società che azzera e scaccia l’etica della crescita, della responsabilità, della acquisizione delle bellezze della vita insieme alle sue fatiche? Se la luce dell’amore, della capacità di scegliere, di fare il bene, non si accende dall’inizio, chi deve ancora crescere cammina nel buio, e nel buio incontra il male assoluto che lo colpisce facilmente, anche perché la vittima non ha avuto esperienza del male, nessuno gli ha mai detto o insegnato nulla. Siamo sicuri di poterci sentire innocenti di quanto accaduto, solo perché accaduto ad altri? Credo di no.